Un’immagine sinistramente familiare. Seduto su una sedia precariamente, dopo essere scivolato sul suo stesso sangue, il corifeo, con indosso una maschera di lattice da coniglio, cerca di riprendere il filo del racconto, dell’Orestea, ma dalla bocca gli esce quasi inconsciamente il racconto della discesa di Alice in una Wonderland spogliata da ogni meraviglia, che solo evoca il senso del precipitare. Da dietro le quinte, ogni tanto, una voce con accento vagamente romagnolo lo richiama quasi fossimo in una recita di paese: “Signor Tony, si sta sbagliando. Venga qui”. Ma lui continua imperterrito, tra un vaffanculo detto tra sé o sputato fuori dai denti insanguinati come il resto della figura e la compostezza di un racconto di cui non si deve perdere il filo. Finché il sangue sembra quasi riempire lo spazio bianco degli occhi, arrivare al cervello, al punto di collasso, alla resa: “Mi dispiace, signore”, gli si sente dire mentre crolla a terra portandosi dietro la sedia. Sipario. E quest’immagine è destinata a incidersi sulla retina di chi vi ha assistito come il colpo di lama di Un chien andalou, come la stessa voce del coniglio, si inchioda nelle nostre orecchie come una crocifissione in forma di parole e tremore.
Siamo alla fine del primo atto dell’Orestea della Socìetas Raffaello Sanzio, quello che, dopo vent’anni dal suo debutto, possiamo definire un classico, una pietra miliare del teatro contemporaneo, rimesso in scena a distanza di una generazione per volontà del Théâtre Odéon di Parigi. Ma prima ho accennato alla sensazione di una recita di paese. La domanda però è: “Quale paese?”. Verrebbe istintivamente da pensare all’Italia. Ma a ben vedere è l’intero Occidente, diventato provincia del mondo e dunque luogo elettivo delle barbarie che la tragedia può raccontare.
Lo penso, forse, perché la stessa mattina al Louvre ho visitato la mostra Une brève histoire de l’avenir, tratta dall’omonimo libro di Jacques Attali. E di sala in sala, mi pareva di trovarmi sempre e solo di fronte a un’unica figura, quella che poi avrei ritrovato il pomeriggio, in quella camera di tortura cui Romeo Castellucci aveva tolto la quarta parete. Lo stoicismo nel continuare il racconto carrolliano che ho descritto, infatti, era già tutto nella lucida melanconia del ciclo pittorico di Thomas Cole sul Destino dell’impero (1833-36), fra epoca selvaggia, arcadia, apogeo, declino e maceria. Così le fiamme della penultima tela sembravano traslarsi dall’opera del Louvre a quella dell’Odéon attraverso gli occhi di chi osserva e riporta.
In questa breve storia del futuro (raccontata però attraverso il passato), l’unica voce possibile, infatti, è quella del corifeo, che tuttavia non si rispecchia nel popolo, quanto nel saggio, nell’intellettuale, nel filosofo, nell’artista appunto – in una parola nel poeta. Sono essi a tenere saldamente in mano l’altro capo del filo con cui è ricamato il romanzo delle Parche. E questo romanzo in forma di mostra finisce per specchiarsi immediatamente in quello che è forse il luogo del mondo in cui una breve storia dell’avvenire è sempre lì, a portata di sguardo e di mano, il resto del Louvre, appunto, in cui è conservata come in una time capsule la nostra intera civiltà e la materia di cui sono fatti gli archetipi che ci hanno condotti lungo una marcia, ormai stanca, che pare descrivere esattamente la parabola di Cole. Anche correndo per i corridoi, come nel Band à part di Godard, non si potrebbe non avere l’impressione che l’impero dell’Occidente sia ormai crollato. Questa enorme arca dell’alleanza non è, quindi, che un’iper-maceria, su cui tuttavia la storia non ha smesso di compiere i suoi riti. Il ciclo di Cole non finisce infatti con le fiamme, ma con la natura che lentamente riassorbe tutto. Una natura che lì è metaforica, ma che è nei fatti la stessa natura umana, che cambia, si adatta, dimentica finanche se stessa.
A guardarlo succedere, quasi immune alla mutazione, è ancora una volta lui, quella figura odiosa in ogni tempo, un Tiresia teso tra l’orrore della preveggenza e il dolore della rimembranza. È il coniglio che crolla dopo che le teste dei suoi discepoli sono saltate una a una, o è l’uomo che avrei incontrato poche ore dopo al Centre Pompidou, dove inaugurava la grande retrospettiva dedicata ad Anselm Kiefer. Eccolo allora, in piedi, con l’uniforme che il padre indossava quando era nella Wermacht, tentare nella solitudine di un ufficio tedesco degli Anni Settanta un saluto hitleriano che è un’ennesima traduzione disillusa e forse dissacratoria del sic transit gloria mundi illustrato nelle tele di centocinquant’anni prima.
Eccoci ancora in una recita di paese. Il Paese è la Germania postbellica, dove c’è ancora una figura che un suggeritore in quinta, avrebbe potuto richiamare in qualunque momento dicendo: “Signor Anselm, si sta sbagliando, venga”. E certamente lui avrebbe risposto lo stesso “vaffanculo” tra i denti del coniglio, continuando il suo monologo proprio come ha fatto nella sua intera carriera, documentata con essenziale precisione in questa mostra realizzata dal museo parigino. Eccoli i libri carbonizzati, ecco la terra bruciata, gli effetti delle fiamme che Cole ci aveva mostrato, ecco l’ecatombe dell’Orestea divenuta immagini e materia. Ecco gli Interiors degli edifici del Reich in cui appunto il protagonista eschileo potrebbe muoversi con la stessa familiarità con cui irrompe nella reggia degli atridi. Ecco lui, Kiefer il corifeo, camminare come unico testimone, tra presagio e rimpianto in questa terra desolata, senza rinunciare, alla fine, a un colpo di coda, una grande installazione dedicata alla figura di Madame de Staël, che nel suo Germania vedeva nei poeti tedeschi conosciuti durante il suo viaggio (parliamo di Schiller, Goethe, Schlegel), i veri custodi di un’identità culturale che allora, al di qua e al di là del Reno, si andava, invece, costruendo «con il ferro e con il sangue».
Al centro di uno spazio desertico, in cui crescono funghi, c’è un letto d’ospedale con coperte di piombo su cui giace un mitragliatore. Il nome che possiamo leggere sulla cartella clinica del paziente è quello di Ulrike Meinhof, qualcuno che appunto, solo il corifeo, vessato, aggredito, combattuto dalla Storia, può ricollocare definitivamente tra coloro che, con il proprio anelito ideologico, hanno in realtà difeso la Germania da quell’assalto della dimenticanza che è appunto la forza titanica che nell’ultimo capitolo della pentalogia di Cole si rimangia le macerie rigettando una volta ancora ciò che resta di una civiltà in quell’orizzonte selvaggio in cui , nel finale del Pianeta delle scimmie, l’astronauta George Taylor trova un’eclatante pietra d’inciampo che non è però diversa da tutte quelle in cui mi sono imbattuto oggi, in questa semplice giornata parigina.
E sembra quasi un déjà-vu, se penso che in un caffè della città, la sera prima, conversando con Didier Faustino, si erano toccati gli stessi argomenti, si era discusso dell’artista come figura il cui compito è marciare “contro la Storia” e di una rinnovata consapevolezza da parte una generazione di intellettuali che tende a riappropriarsi di quel ruolo di corifei all’interno della società, di caricarsi sulle spalle il peso di quella casacca che spesso si macchia di sangue come nella tragica fine di Pasolini – i cui vestiti sono appunto stati esposti a Roma dopo quarant’anni – o come nello spettacolo di Castellucci, che, come dicevo, si ripropone dopo vent’anni, ad una generazione di distanza.
E proprio questa misura di tempo non è un dettaglio se è vero che tempo fa, in una cena a Napoli, parlando con Stefano Arienti gli sentii dire laconicamente: “La mia generazione nell’arte non esiste”. Parlava della generazione che era adulta quando la Socìetas Raffaello Sanzio, nel 1995, faceva debuttare Orestea, in una solitudine spettrale. Erano gli anni in cui io ero un ragazzo, e seguivo le avventure del gruppo cesenate nelle poche piazze europee che programmavano i loro spettacoli. Oggi li ritrovo a Parigi, che non sono più ragazzo, mentre appunto parlo, mentre mi sforzo di riconnettere tutti i fili del discorso. Oggi guardo a Romeo, come a Kiefer, come a Jochen Gerz, come a Gordon Matta-Clark, come a eccezioni che hanno percorso il deserto a piedi, che non hanno smesso di esercitare il ruolo dell’artista corifeo, mentre gli altri intorno “non esistevano” essendosi trasformati in lacchè di quello stesso potere che tende a cancellare tutto, a imbiancare più di quanto abbia fatto quello che Brecht chiamava l’imbianchino e che è stato ciò contro cui Kiefer ha scagliato dardi, sempre più netti, sempre più precisi, in una guerra che si vince solo con la pala, scavando, estraendo dalla terra che seppellisce e dalla natura che riassorbe, gli archetipi, le forme primarie dell’identità, prima che sia troppo tardi, prima che ci si riduca allo stato selvaggio, prima che si muoia.
Perché come Pasolini scriveva in Una disperata vitalità, “la morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi”. Ecco, morta la nostra civiltà sarà davvero quando non potrà più essere compresa da noi che ne siamo gli eredi. Morti saremo quando per noi il coniglio che recita Alice starà soltanto raccontando la storia di Alice, quando anche noi gli diremo da dietro le quinte che sta sbagliando, non riusciremo più a leggere tutto il resto del linguaggio che sta oltre le parole, quando il nostro accento sarà diventato marcato, un accento di paese, di una civiltà divenuta ormai marginale, sepolta da un altro impero il cui treno sembra già partito e destinato a travolgere ogni cosa che incontrerà. Sì, a metterla per iscritto sembra già l’immagine del presente, ma se anche lo fosse non vuol dire che sia l’ultimo capitolo del romanzo. Che se i poeti devono, per loro natura e per dovere, andare contro la Storia, non è detto che la storia non sia in grado di farsi fermare, di farsi riavvolgere e di ricominciare in un’altra direzione senza perdere il suo bagaglio di identità, senza dover passare per la tabula rasa.
Ma la poesia può davvero fermare un treno, uno di quelli che si aspettano venire dalle rotaie che tendono a infinito perse nei desertici orizzonti dei dipinti kieferiani? Vero è che non lo ha potuto con Kiefer, non lo ha potuto con Castellucci, figure che alla prova del fuoco della contiguità delle ore non sono sembrate inferiori ai Michelangelo, ai Perugino, ai Géricault, rinfrescati in mattinata. Lo ha fatto, però, durante il Rinascimento che strappava un rinnovato orizzonte umano al buio del medioevo, lo ha fatto durante il secolo dei Lumi che restituiva libertà a quella stessa figura curvatasi e appesantitasi sotto il peso della Controriforma. Lo ha fatto tutte le volte che i corifei sono diventati coro, tutte le volte che il monologo si è aperto ed è diventato discorso aperto, riflessione inscindibile fra pensiero e azione di una società. Lo può ancora, dunque, se i poeti sapranno tornare ad essere generazione, sapranno tornare così ad esistere, marciando lungo le rotaie come una marea che possa imporre al treno della Storia di fare marcia indietro, di trovare la strada per un capitolo che sia nuovo, ma non sia il primo capitolo di un’altra storia, un’altra che non sia la nostra.
Aggiungo a questa riflessione due note a margine.
La prima riguarda la città di Parigi o forse la Francia, in generale, e il fatto che i musei visitati erano tutti gratuiti per i giovani sotto i 26 anni, che i biglietti per lo spettacolo di Castellucci sono esauriti da settimane e che fuori dai cinema dove programmano film come il Mia madre di Nanni Moretti c’è la fila. Riguarda un Paese in cui il comparto cultura è ancora composto da realtà di alto livello poste in una rete capillare e funzionante. Comprendi così la ragione per cui quella città e questo Paese sono stati colpiti dai recenti attentati. Perché, forse, per quanto ormai “provincia” come tutto l’Occidente, qui la civiltà non è un ricordo. Qui è ancora qualcosa di vivo, qualcosa che coinvolge maree di giovani preparati e appassionati. E poi comprendi l’insensatezza degli allarmismi italiani, comprendi che mai nessuno attaccherà il nostro Paese, perché non c’è più niente da cancellare. Perché abbiamo liquidato già tutto noi. Da noi l’Isis è già passata, ma usava una bandiera tricolore.
La seconda nota me la consento solo perché riguarda un altro editorialista di questa rivista. È con Christian Caliandro che sovente mi trovo a discutere sull’appartenere al XX o al XXI secolo. La critica che spesso mi pone è quella di attardarmi nel Secolo Breve senza aver il coraggio di salire sul treno del secolo nuovo. Gli rispondo, con questo articolo, che nutro verso questo treno un grande amore, l’amore dei padri (ormai ne ho l’età) verso i figli. È il treno su cui oggi viaggiano quelle avanguardie di una nuova umanità che ho spesso identificato nei rifugiati, negli Alì dagli occhi azzurri che, proprio come diceva Pasolini, distruggeranno quel che troveranno sulla loro strada, con la gioia creatrice dei bambini. Ma io, no, non sono su quel treno. Se un poeta marcia contro la Storia che quel treno rappresenta io sono, coi poeti, a terra, perché il mio lavoro è assicurarmi che quando i bambini saranno diventati adulti non trovino tutto distrutto, ma abbiano ancora salvi gli archetipi, abbiano ancora l’Orestea, per potersi ancora comprendere, attraverso di essa, per non essere nati morti.
Gian Maria Tosatti
Parigi // dal 16 dicembre 2015 al 18 aprile 2016
Anselm Kiefer
a cura di Jean-Michel Bouhours
CENTRE POMPIDOU
Place Georges-Pompidou
+33 (0)1 44781233
www.centrepompidou.fr
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