La puntuale indagine di Grégoire Chamayou sul fenomeno attuale e sempre più controverso dei droni da combattimento, scandagliato dal filosofo francese nientemeno che attraverso una Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere (DeriveApprodi, 2014), sottolinea sin dal titolo lo statuto ontologico inedito di un’arma volante non ancora identificata. Ma è davvero tale?
Per quanto riguarda il mero fatto empirico non v’è dubbio: un caccia(tore) dis-abitato e tele-guidato rappresenta un’inquietante novità, che Chamayou indaga con dovizia di analisi e rigore teorico, per una presa di coscienza del lettore doverosa quanto inquieta. A voler esser meno letterali, tuttavia, mai marchingegno bellico ispirato all’universo teriomorfo fu più stabile e consueto, nell’umana storia degli assedi. Non erano già teleguidati, teleologici e teologici quei due uccelli di ferro, o meglio quelle due chimere contemporanee composte di un cetaceo e un gabbiano che si schiantarono sulle Torri Gemelle? E prima ancora quel cavallo di legno con la pancia infetta che varcò le mura di Troia, fino alle remote macchine d’assedio corazzate di velli animali, sguinzagliate da totem arroccati ciascuno nel proprio recinto e che con ogni probabilità ispirarono l’Iliade di Virgilio e non di Omero?
Ancora oggi le umane membra presidiano becco e artigli di veicoli rapaci a fronte di mura già da sempre crivellate di colpi, il drone non è che l’ultimo ritrovato di una moda zoofila perenne. Non faceva eccezione il samurai dei cartoni animati Goldrake, adorno com’era di palchi di bue raddoppiati (un omaggio a Çatal Hüyük?), e che ancora riconsegnava alla base il suo timoniere, prima cioè che le piccole pesti oltre lo schermo impugnassero quel joystick che lo avrebbe mandato in pensione. Rappresentava per caso l’anello di congiunzione tra ciò che fu e ciò che sarebbe stato? O non è già da sempre l’emissario altrove, celato in una cabina di regia mentre dirige i tanti robot ante litteram contro l’avversario di turno, sacrificando all’occorrenza i piccoli parassiti stipati al loro interno? Perché è questo che in fondo gli arruolati d’ogni epoca e rango sono, parassiti della macchina bellica illusi d’esserne i comandanti, e di cui l’asettico drone può finalmente sbarazzarsi.
Oltre a riesumare l’annosa questione del patto di dipendenza forzata tra sudditi e sovranità in caso di guerra, nella sua ricognizione Chamayou predilige le tante aporie che una progressiva “dronizzazione” del conflitto armato e la relativa “necroetica” sanno elargire in quantità. Denunciando i paradossi che la sovrapposizione canaglia tra forze armate e istanze di polizia comporta, il filosofo passa a decostruire le retoriche in commercio volte a dissimularli. Con le parole di Carl Schmitt, rileva in proposito come ogni incursione aerea, con in testa evidentemente quella del nostro, evochi scenari d’altri tempi: “Il bombardiere o l’aereo d’attacco a volo radente usano le proprie armi contro la popolazione del paese nemico verticalmente, come San Giorgio usava la sua lancia contro il drago. Oggi, nel trasformare la guerra in un’operazione di polizia contro perturbatori, contro criminali ed elementi nocivi, occorre anche amplificare la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così costretti a spingere la discriminazione dell’avversario a dimensioni abissali”.
Cioè mostruose, bestiali. Quando si demonizza il nemico fino a identificarlo con il Male in persona, le forze del Bene con ciò stesso si divinizzano. Che dire delle antinomie, paradossi e chiasmi che la reciprocità ostile sa elargire all’ennesima potenza? Emergendo dagli abissi dell’odio, ogni mostro rinfaccia al suo avversario di esserne in realtà il riflesso, di non vedere che è lui a specchiarsi sullo spartiacque letteralmente “dia-bolico” del polemos. “La violenza è il sacro”, sentenzierà René Girard (La violenza e il sacro, Adelphi 1980) a proposito della crisi mimetica dei doppi che partorisce il male e il suo rimedio. “La bestia è il sovrano”, gli farà eco Jacques Derrida (La Bestia e il Sovrano, Jaca Book 2009) a proposito di controparti necessarie e ontologicamente indecidibili.
Così gli omicidi per nulla mirati dei droni da una parte, e gli attentati terroristici che da decenni perforano i recinti (anche) d’Occidente dall’altra, sembrano raccontare una partita di rappresaglie in perfetta parità, quantomeno sul piano simbolico. La cosa non rende il drone più antipatico di piani logistici e arsenali fatti in casa su ricettari online. Insurrezioni fai da te e contro-insurrezioni imperiali mietono a ritmo alternato, e ancora una volta in nome di totem contrapposti, innumerevoli vittime sacrificali. Se non spetta a noi stimare i rispettivi bilanci, non così è per le metafore bestiali reciprocamente inflitte.
Si prenda nuovamente il duplice scacco matto inflitto al World Trade Center. Ora lo si può intendere, se visto da noi, come il raptus sessuale di una coppia di falli alati e carichi di seme infetto ai danni di altrettante principesse turrite, per abissali rimandi alla favola di Amore e Psiche, alla “Annunciazione” in tempo reale di uno stupro, all’immancabile drago saraceno al cospetto di una cristianità sempre irresistibilmente sulla difensiva, a mille altri archetipi di sovranità violate, pensiamo solo al Tarocco della torre scoperchiata che tutti li compendia. Ora, se visto da loro, come l’eroica impresa di un manipolo di impavidi sotto la guida di un novello Odisseo armato di brevetto da pilota, abiti civili e documenti, prima ancora che di taglierino, e che non pago di una Manhattan trasfigurata nella rocca di Ilio, così come di colossi monocoli accecati, traghetta d’un colpo (anzi due) i compagni nel feudo celeste di Allah, finalmente sgombro di Proci e gravido di un harem di vergini ben più invitanti della vegliarda Penelope. Il tutto mentre innumerevoli leve ascritte alla cavalleria degli oppressi ne vanno cantando le gesta, sovente emulandole.
Quindi è la volta del drone: draghetto sputa saette (a quando la pupa cotonata stampata sulla groppa?), nano sminteo (“stermina-topi”, come Febo), mantide religiosa (un pizzico di dark humor), se contemplato con distacco apollineo dai decisori americani. Sciacallo vigliacco (il bersaglio inquadrato è già cadavere), Medusa pietrificante (lo sguardo panottico congela ogni via di fuga), Idra extraterrestre (è invisibile dalla Terra), se patito dalle popolazioni prese di mira dalla stratosfera – e rimandiamo al libro di Chamayou per gli agghiaccianti dettagli in merito.
Se la “Guerra dei Mondi” è nel Vicino e Medio Oriente, un branco di lupi per nulla fantasma si aggira per l’Europa, braccando solo da ultimi la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo e il Bataclan. O non si tratta piuttosto di eroi nel segno di Teseo, calati in un dedalo urbanistico oggi districato da uno smartphone sul cui screen è un’Arianna sorridente, e abitato da un Minotauro che ancora una volta ha osato prendersi gioco del suo Signore? Dopo l’edulcorante temperie psicoanalitica, le cronache contemporanee sembrerebbero voler riconsegnare la mitologia alle sue radici più autentiche.
Evidenze iconografiche tanto prossime al mondo animale non possono che congedarci con un tarlo filosofico. Dietro i vessilli ideologici e l’apparente relativismo etico che li accompagna, sussiste forse un’identità ontologica tra la cellula dormiente o lupo in agguato che sia, e quello pterosauro di latta che è il drone? Se entrambi colpiscono all’improvviso vittime civili ignare di costituire un trofeo di caccia, non segnano forse il medesimo, impersonale predatore celato alla vista? Tra bracconaggio fai da te e allevamento legalizzato, tra l’hunter che punta il mirino su una selva di schermi mentre sgranocchia pop-corn e il boia che brama di recitare Abramo sacrificante Isacco in un colossal a bassa definizione, non c’è forse un’unica moneta sacrificale tirata a sorte? Dobbiamo ritenerci diversi, migliori e al sicuro, in un Occidente dove il nemico invece di colpire dall’alto come Predator (che peraltro è il nome del drone per antonomasia), ci sbuca in pancia come Alien? Non siamo noi e i nostri doppi in preda agli ufo in un palinsesto di film fantascientifici? Non assomiglia il match, ancorché misconosciuto e anzi proprio per questo, a un gioco “a somma zero” e “informazione perfetta”, a uno scacchiere spazio-temporale senza soluzione di continuità dove torri e cavalli, bestie e sovrani, draghi e droni sono presi nel vortice mimetico di un eterno finale di partita progressivamente spettacolarizzato, in un Colosseo globale e mediatico la cui marca imperiale si fa sempre più incerta e vacante?
Senza scomodare oltre i tanti interrogativi onto-teo-zoopolitici che il presente (as)saggio iconografico può limitarsi a sollevare, è intanto evidente come celato sotto vesti inedite vi sia il deposito trascendentale di sempre, per ulteriori bestiari, saghe e spettacoli equamente distribuiti. Gli eventuali pudori iconoclastici, infatti, ormai vedono gli attori di entrambi i dragoni spartirsi i richiami della ninfa Eco (alias la Principessa) come le canne la marrana, o come i punti di fuga il labirinto se a ispirare gli eroi è l’Arianna del cuore.
Roberto Ago
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