Con un gesto mitologico – la costruzione e la pubblicazione nel giorno del suo ultimo compleanno di un disco, Blackstar, che è certamente il migliore e il più innovativo in assoluto dai tempi di Earthling, e che parla non a caso di morte: che è la morte, in un certo senso – se n’è andato David Bowie (Londra, 1947-2015).
Un artista che ha influenzato in profondità l’immaginario collettivo e trasformato la realtà culturale che lo circondava, attraversando molteplici epoche e contribuendo a plasmarle. L’invenzione del glam rock nei primissimi Anni Settanta rappresenta un inno alla trasformazione dell’identità, che impone una vertiginosa accelerazione alle sottoculture musicali dopo e durante l’approfondimento della psichedelia. Ziggy Stardust insegna ai giovani occidentali (insieme almeno ai Roxy Music), che si possono benissimo tenere insieme la sperimentazione più radicale, il look e l’attenzione al pop e alla cultura di massa. Se si pensa che una delle immagini-chiave, incastonata esattamente alla metà del decennio, è quella dei teppistelli che saranno i futuri Sex Pistols che si intrufolano a un concerto del Duca Bianco e addirittura fanno in modo di fregarsi gli amplificatori, si inizia a comprendere la capacità di penetrazione di Bowie nei cervelli di più generazioni.
Se infatti i Pink Floyd, per esempio, insieme in generale a tutto il virtuosismo rock fatto di brani lunghissimi e superiorità esibita sembrava fatto apposta per essere preso di mira dal neonato punk (“I hate Pink Floyd”, recitava una delle luride leggendarie magliette di John Lydon-Johnny Rotten), David Bowie è stato sempre una sorta di fratello maggiore per tutti i nuovi gruppi che man mano si affacciavano sulla scena e scoprivano se stessi. Se infatti all’altezza sempre del 1975 lo si trovava alle prese con i revivalismi e le nostalgie di Young Americans (analoghe a quelle che, in modo e misura differente, animeranno proprio il punk inteso come riscoperta delle origini del rock’n’roll contro le sofisticazioni e gli eccessi dei supergruppi), nel giro di qualche mese già si era introdotto nella realtà sociale, politica, culturale più aliena e alienante dell’Occidente (mentre, contemporaneamente, interpretava al cinema il protagonista di L’uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg): Berlino divisa dal muro e isolata in uno spazio mentale che aveva generato la musica oscura e robotica del krautrock.
Insieme a Brian Eno e a Robert Fripp, Bowie dà allora vita in un pugno di anni (1977-79) all’epica trilogia berlinese, composta da Low, Heroes e Lodger: semplicemente, uno degli atti fondativi della cultura contemporanea, e l’oggetto seminale di tutto ciò che verrà dopo in termini musicali. Il post-punk che proprio in quel giro di anni muoveva i primi passi si fondava sul medesimo schema e sugli stessi presupposti: oscurità, dissonanza, ricerca e esplorazione di nuovi orizzonti sonori e atmosfere inedite, grandi brandi popolari in grado di incistarsi nell’immaginario popolare. I Joy Division faranno immediatamente tesoro di questa preziosa lezione (il loro primo nome era proprio Warszawa, in omaggio al titolo uno dei brani più sorprendenti di Low), sviluppandola e portandola alle estreme conseguenze. Ma sono innumerevoli i gruppi post-punk che seguono l’esempio di Bowie, cercando di emularlo: dai Japan ai Duran Duran, dai Bauhaus ai Tubeway Army di Gary Numan agli Ultravox di John Foxx.
Il passaggio agli Anni Ottanta, con le ambiguità e le tensioni da “ritorno all’ordine” che peraltro caratterizzano tutti i territori artistici extramusicali – dalle arti visive al cinema alla letteratura – è stato raccontato perfettamente da Todd Haynes in Velvet Goldmine (1998), un film che andrebbe rivisto molto attentamente per come riesce a fotografare e a restituire alcune mutazioni fondamentali della cultura postmoderna nell’ultimo trentennio. Della produzione più recente di Bowie, occorre per brevità segnalare almeno due autentici gioielli, vale a dire il concept album fantascientifico 1. Outside (1995) e Earthling (1997).
Fino alla nera sorpresa di Blackstar, pubblicato tre giorni fa e anticipato dall’omonimo singolo: un album che contiene un tesoro di consapevolezza, indicando una strada assolutamente plausibile e percorribile – a patto di essere animati dallo stesso coraggio e da una pari visionarietà – non solo per chi si occupa di musica popolare. Blackstar fa parte infatti, come è stato già notato da più parti, di quella schiera molto rilevante (anche se spesso “sotterranea”) di opere d’arte capaci di cristallizzare questo presente spettrale e il XXI secolo che avanza, con il loro negare forma e struttura in favore della costruzione di una forma differente, più complessa, non-lineare: aliena. Ma questo è un discorso che andrà ripreso, anche in onore a David Bowie, più avanti.
Christian Caliandro
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