Non ho timore a confessarlo. Sono un consumatore compulsivo di serial televisivi, negli ultimi anni divenuti produzioni spesso così ben fatte da reggere il confronto con molta della produzione cinematografica attuale.
Per ragioni diverse ho amato True detectives, sono rimasto deliziato da Honorable Woman, i sei straordinari episodi di produzione BBC ambientati all’interno del conflitto israeliano-palestinese, e mi sono lasciato corrompere da Empire, decisamente tacky ma così ben confezionato (ambienti, musiche, costumi) da risultare una carta moschicida capace di attrarre un pubblico tanto vasto da renderlo lo show più profittevole del momento per gli introiti pubblicitari che è in grado di attrarre.
Tra i più ipnotici c’è poi Homeland, serial che negli ultimi anni ha raccolto tutte le onorificenze possibili della critica televisiva. Prodotto negli Stati uniti dal 2011, si avvale di personaggi per lo più poco equilibrati: Carrie Mathison, un’agente della CIA con profondi disturbi bipolari, instabile ma dotata di un intuito e di una determinazione maniacali, è convinta che il marine statunitense Nicholas Brody, a lungo detenuto da al-Qaeda come prigioniero di guerra, faccia parte di una cellula dormiente e sia un rischio significativo per la sicurezza nazionale.
Nello svolgimento della trama, buoni e cattivi, militari e civili, occidentali e mediorientali si confrontano all’interno del caos geografico ed emotivo di cui tutti siamo ormai consapevoli di vivere anche nel mondo che ci circonda.
Nelle scorse settimane però, a complicare ulteriormente le cose, realtà e fiction si sono confuse. In una sequenza del secondo episodio della quinta stagione, Carrie Mathison viene scortata da un militante di Hezbollah all’interno di un campo profughi siriano e passa di fianco a un muro coperto di graffiti in arabo.
La scena è stata in realtà girata a Berlino dove un artista egiziano, Heba Y. Amin, messo sull’avviso proprio da una telefonata della produzione alla ricerca di artisti di strada arabi in grado di affrescare il set, su quel muro aveva in precedenza scritto “Homeland is racist”, “There is no Homeland” e “Homeland is not a show”. Contando sulla poca dimestichezza della troupe statunitense con l’arabo scritto, Amin ha così sfogato il suo malcontento per uno spettacolo che a suo parere ritrae il mondo musulmano in modo insopportabilmente stereotipato.
Sul suo sito Amin si fa interprete di un’analisi accurata delle inesattezze di cui è ricca la serie: a suo parere pericolosissime per la disinformazione che generano tra i milioni di spettatori che la seguono in tutto il mondo.
Aldo Premoli
trend forecaster
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #28
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