Innovazione e collaborazione. A partire da Stiglitz
Mi propongo adesso di convocare attorno a un tavolo tre intelligenze eccezionalmente brillanti, che nominerò tra breve, cogliendo l’occasione della pubblicazione di un volume ampio e ambizioso, “Creating a Learning Society” dell’economista e Premio Nobel Joseph Stiglitz. Le inviterò a discutere di un tema specifico.
La prima domanda di Joseph Stiglitz interessa chi si occupa di abilità, talento, intraprendenza. Si chiede Stiglitz: i mercati sono efficienti nel distribuire conoscenza e apprendimento? Premiano l’innovazione? La sua risposta è no. I mercati “efficienti” sono una leggenda neoliberale. Mercati inefficienti incoraggiano la formazione di monopoli e uccidono la competizione. Anche in ambito cognitivo. Senza competizione, è facile capirlo, niente innovazione.
Stiglitz si occupa di innovazione tecnologica, ma noi possiamo derivare dalla teoria economica determinati spunti o categorie per trattare di tutt’altro. Di arte, ad esempio. L’arte contemporanea è un mercato. E anche qui si possono formare concentrazioni che intralciano il fiorire del talento. È il momento di introdurre gli altri interlocutori: il sociologo Richard Sennett e Leon Battista Alberti, critico e teorico, architetto, artista-ingegnere rinascimentale.
Perché Sennett e Alberti? Perché entrambi, come Stiglitz anche se in ambiti diversi, si interrogano sul processo creativo: sui nutrimenti iniziali, certo, ma non meno sulla trasmissibilità dell’innovazione, sul suo beneficio per la collettività nel suo insieme e sulle circostanze più propizie a evoluzioni successive. Riformuliamo la domanda: come fare perché la scintilla divampi?
“Le idee devono essere disseminate e messe in pratica”, raccomanda Stiglitz. “Si dà un incremento di produttività se le aziende imparano l’una dall’altra”. Mutiamo i termini della questione: sostituiamo “artisti”, “critici” e “curatori” a “aziende”: possiamo trarre un’indicazione utile sui modi attraverso cui trasformare in senso potentemente collaborativo i territori della creatività, oggi solcati da gelose barriere individuali, professionali e persino nazionali.
Sennett si pone il problema di come distinguere un processo innovativo partecipato e durevole dal mero exploit individuale. Non fa riferimento tanto all’arte contemporanea, che a suo avviso si rivolge a un pubblico circoscritto, quanto all’innovazione sociale, e delinea un modello centrato sulla nozione di collaborazione. La buona sociologia culturale è per Sennett il medium dell’innovazione. Infrange gerghi e oscurità, procura genealogie e immaginazioni di futuro, crea comunità. È parte indispensabile del processo innovativo. Vorrei che sostituissimo il termine “critica” a “sociologia culturale”: potremmo trarre un utile suggerimento. Introduciamo infine il terzo interlocutore.
Al momento di scrivere il De Pictura, tradotto da lui stesso in volgare, Alberti si propone di andare oltre il semplice trattato tecnico di tradizione medievale. Scrive un manifesto. Tralascia questioni pratiche per chiamare a raccolta gli artisti più innovativi. Stabilisce obiettivi generali. Inserisce la pittura nel vivo della ricerca contemporanea, tra matematica e retorica. Fissa determinati standard di eloquenza e gusto. Suggerisce infine nuovi atteggiamenti ai pittori che si prefiggano di adottare il suo punto di vista. Ampie letture, interessi trasversali, senso della sfida e attitudini cooperative con i migliori nei più diversi campi – attitudini da ricercatori, scienziati e imprenditori più che da recalcitranti titolari di bottega. Al termine della sua fatica può ben dire di aver ottenuto ciò che si era proposto: la trasformazione di un oscuro “mestiere” familiare in un’arte liberale degna di “nobilissimi cittadini, filosofi e re”.
Tutto questo che dimostra? In primo luogo che il discorso economico angloamericano attinge a (e talvolta preda) la trattatistica rinascimentale. È legittimo che lo faccia. Riconoscerlo costituisce però uno sprone a comprendere l’importanza di un’eredità che parla a tutti. In secondo luogo: lo studio della creatività modella la discussione politico-industriale dei Paesi più avanzati. Non esiste avanzamento tecnologico senza un ingente investimento pubblico o pubblico-privato nei settori considerati strategici dell’educazione, della ricerca di base e applicata, della collaborazione fra imprese e fra università e imprese. In terzo luogo: affinché esista una scena artistica vivace e diffusa servono buone scuole e buoni musei, ambiti di socialità del sapere, una lingua e un dizionario comune (cioè una critica qualificata e partecipe, autonoma nei compiti).
Una moltitudine di piccole imprese sottoqualificate e impegnate in una dura lotta per la sopravvivenza – tali sono per lo più le gallerie d’arte contemporanea italiane – non surroga l’assenza di investimento pubblico né ha o avrà mai risorse da destinare a R&D: di conseguenza non riuscirà a finanziare innovazione artistica, critica, editoriale o altro. Siamo dunque spacciati? Forse no, soprattutto se riusciremo ad attingere alle risorse che ci attendono da qualche parte nell’ambito di una tradizione formidabile. Ma sembra proprio che senza uno sforzo comune da parte di tutti – chi scrive di arte, chi fa arte, chi cura mostre o pubblica riviste, chi conduce una galleria – e un senso più esigente della “qualità” non potremo assicurare all’arte italiana di oggi quella stabile e qualificata infrastruttura educativa di cui ha più bisogno.
Michele Dantini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #27
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