Mezzo secolo di Odin Teatret. Intervista con Eugenio Barba
Presentato con successo nelle Giornate degli autori alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, “Il paese dove gli alberi volano” è un documentario che racconta il teatro di Eugenio Barba. Fondato a Oslo nel 1964, il suo Odin Teatret si è trasferito a Holstebro, in Danimarca, nel ’66, dove ancora oggi ha il suo quartier generale. L'Odin ha da poco compiuto i suoi primi cinquant’anni di vita, il che lo rende la più longeva esperienza partecipativa di teatro/comunità, con i suoi attuali 25 membri provenienti da più di dieci Paesi e tre continenti.
Il documentario Il paese dove gli alberi volano, firmato da Davide Barletti e Jacopo Quadri, esce nelle sale il 21 gennaio. Segue Eugenio Barba durante la preparazione e la realizzazione dello spettacolo celebrativo di una compagnia che vanta quasi ottanta spettacoli rappresentati in tutti i continenti, di cui molti ancora in cartellone. Il film attraversa la visione di Barba, svelando la semplicità e la forza del suo operare. La Festuge da lui concepita assume i tratti di un rito pagano di morte e di rinascita. Emigrato in estremo Nord, Barba conosce la discriminazione. Il teatro è il suo modo per riscattarsi e per riscattare l’umanità attraverso un esperanto corporeo ed espressivo che accoglie tutte le arti, anche quelle più popolari (come le maschere e le danze tribali) sintetizzandole dentro la città tradotta in palcoscenico. Il teatro di Barba deborda così nella vita portando scompiglio, festa, annuncio e poesia. Sostenuto, allora, da un sindaco e un segretario comunale lungimiranti, che trovarono nel teatro un buon modo per arrestare lo spopolamento di Holstebro, Barba ha trasformato la città in un centro internazionale.
Nel film lo si vede invitare persone dal mondo, danzatori balinesi e kenioti, cantanti asiatiche e maschere e riti da ogni parte del mondo. Li fa danzare con i bimbi della classe di balletto e suonare con violinisti classici, al fine di creare un incontro tra diversità che fanno dell’arte nostra un elemento esistente al pari di altri. Le forze mitiche di ogni cultura s’incontrano e ballano insieme, sottese dall’idea del baratto su cui si regge l’Odin: se io canto per te, poi tu devi cantare per me. Il film mostra la città occupata da tribalismi lontani, da processioni di danzatori e maschere che dilagano negli uffici e nei luoghi pubblici, sotto lo sguardo muto della mascotte dell’Odin Teatret, quella Ragazza su un carro che Alberto Giacometti regalò nel 1966 a Barba e che qui chiamano Maren.
Che cosa è il cinema per te?
Avevo diciotto anni quando vidi uno dei miei primi film, fu alla Cinémathèque di Parigi. Era un film di Vigo o Renoir. Per me, che venivo dal sud d’Italia, il cinema era uno scrigno pieno di sorprese.
Cosa ti colpì di più di questo scrigno?
Sorrisi di una notte d’estate di Ingmar Bergman: vivevo già a Oslo quando lo vidi. Ho rivisto il film più volte, negli anni, e mi ha sempre sorpreso come le situazioni descritte da Bergman rimangano vive nel tempo.
Avevi già deciso di fare teatro o ci sei arrivato attraverso il cinema?
No, ero interessato alla letteratura e al mondo dell’arte. Tutte le arti mi interessavano, meno il teatro.
Perché lo hai scelto? Forse perché ti ha permesso di sintetizzare anche le altre arti?
In realtà l’ho scelto perché ero stato migrante in Norvegia negli Anni Cinquanta. Da marinaio, per due anni ho dovuto affrontare il disprezzo che i marinai norvegesi nutrivano ed esprimevano per i colleghi portoghesi, cinesi e italiani. Finita l’università a Oslo, volevo trovare un modo per esorcizzare questa chiusura verso di noi in quanto stranieri. Così ho pensato che potevo mettermi una maschera, quella del regista. In fondo, il regista non ha bisogno di scuole o di qualità speciali, basta immaginare di poter fare il regista. Da allora ho esercitato come regista e non più come italiano.
Il film racconta la festa dei cinquant’anni dell’Odin Teatret, celebrata come un incontro fra civiltà. Hai invitato artisti e compagnie da ogni parte del globo, esponenti di culture diverse, e con loro hai creato uno spettacolo che ha occupato l’intera città. È un tuo antidoto allo scontro di civiltà che segna questo momento storico?
È facile fare incontrare le persone della stessa professione, dove la diversità è un valore perché ci aiuta ad auto-definirci. Diverso è quando la diversità assume il carattere di minaccia. Uno straniero è qualcosa di esotico e interessante, ma quando sono mille diventano una presenza nel nostro immaginario che minaccia la nostra sicurezza sociale e individuale. È difficile trovare una soluzione.
Da ex migrante, cosa pensi di quanto sta accadendo rispetto alle ondate migratorie in Europa?
L’insicurezza fa parte del nostro tempo, la crisi ha prodotto un senso di precarietà che viene accresciuto da questa tragedia. Ci vuole un enorme coraggio emotivo per dire: “No, io vi accolgo”. Per questo ho trovato bello che alcuni politici abbiano accettato di accogliere tutti. Per una volta hanno pensato non secondo le categorie fredde e razionali della politica ma secondo una morale emotiva.
Tutto ciò ti ricorda, con le dovute proporzioni, la tua storia?
Quando siamo arrivati a Holstebro, una cittadina tradizionalista con 16mila abitanti, abbiamo fondato un teatro con attori norvegesi. Ai nostri spettacoli reagirono male per anni, ma i politici locali ci hanno sempre sostenuto. Il sindaco, che di professione era postino, disse che se per gli esperti l’Odin aveva qualcosa di speciale, conveniva seguirli e sostenere l’Odin.
Poi le cose cambiarono, arrivò il successo internazionale. Pensi che il teatro possa cambiare la società dentro cui opera?
Nel tempo abbiamo conquistato gli abitanti della città in cui operiamo, ma l’arte non può cambiare la società se essa stessa non è disposta a riconoscere il valore di un’attività culturale. Per questo motivo, ogni attività culturale va sostenuta dai politici.
Il tuo teatro ha qualcosa di sciamanico, come un rituale pagano ricreato per concentrare, espellere o esorcizzare energie positive o negative. Cosa pensi del teatro panico di Alejandro Jodorowsky?
Conosco la prima parte del suo percorso, quando in Messico incontra Arrabal e Topor. Io lo apprezzo soprattutto perché ha scritto i migliori numeri di Marcel Marceau. In pochi lo sanno.
Visto il film che ti hanno dedicato Davide Barletti e Jacopo Quadri, torniamo al rapporto fra il teatro e il cinema: chi viene prima?
Il cinema deve avvalersi degli attori e la maggior parte di essi giungono da una formazione teatrale, però credo che sia stato il teatro ad avvalersi del cinema più che il contrario.
Il tuo teatro cosa ha assunto dal cinema?
Personalmente sono stato molto influenzato dal cinema di Sergei Eisenstein. Il mio modo di lavorare come regista proviene dalla sua idea di montaggio emotivo, ritmico e narrativo. La mia passione per lui è giustificata anche dal fatto che per anni ha diretto spettacoli teatrali, è stato straordinario. Sarebbe interessante capire perché poi abbia lasciato il teatro per il cinema, per me conferma che la forma di spettacolo del nostro tempo è il cinema e non più il teatro.
Il teatro non rispecchia più il nostro tempo?
Appare come una forma arcaica di comunicazione. Perché continuare? Non è forse più utile fare film per raggiungere un pubblico più vasto? Io vado al cinema e devo dire che influenza il mio panorama interiore.
Quindi il teatro è morto?
In verità, il teatro mantiene un’importante capacità esclusiva. Se fai sullo schermo un gesto semplice come quello di rovesciare dell’acqua per terra, questo gesto non dirà granché. Ma se lo stesso gesto lo fai a teatro, allora accade una comunicazione di tipo animalesco, cambia tutto; del resto siamo animali razionali ma siamo animali.
Quindi il teatro ha ancora molto da dire.
Questa comunicazione mi affascina per motivi artistici. Da migrante ho vissuto un’esperienza estrema: ero pieno di vitalità ma ero considerato stupido. Quando ho lasciato l’Italia a 18 anni sono arrivato in Norvegia e non parlavo la lingua: potevo tradurre Sofocle dal greco antico e Cicerone dal latino, ma ciò non serviva per lavorare in un’officina meccanica dove ti dicevano cose che non potevi capire. Per un anno il mio compito è stato quello di decifrare ciò che la gente mi diceva, non attraverso le parole, bensì attraverso le posture del corpo e il tono della voce. Tutto ciò mi è rimasto come una lezione.
La comunicazione non verbale è fondamentale nel tuo teatro, come la definiresti?
La comunicazione non è soltanto uno tsunami di parole, è molto altro; è qualcosa che ti permette di penetrare in quelle parti che lo spettatore neppure sa di avere. Il cinema, anche se lo volesse, non riuscirebbe mai ad eguagliare il teatro in questo.
Nicola Davide Angerame
www.ilpaesedoveglialberivolano.com
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