Bufera street art a Bologna. Parla Flavio Favelli
Ve la ricordate la polemica che quest’estate imperversava intorno a un’opera di Flavio Favelli? Era un lavoro d’arte urbana, realizzato su un muro, a Cosenza. Ora la polemica torna a impazzare a proposito di opere di Street Art. Però siamo a Bologna. E Favelli riprende la parola.
L’INSOFFERENZA DELLA STREET ART
La sola cosa che salvo della Street Art è che è fatta per non finire in un salotto. Se si sceglie il muro, anziché la tela o il quadro, è essenzialmente per tre motivi: si vuole stare alla larga dai luoghi tradizionali dell’arte, si ha un linguaggio poco attrezzato per addentrarsi in quella contemporanea e si ama troppo la strada.
La Street evita il mondo dell’Arte sia perché quest’ultima è troppo difficile, sia perché è troppo corrotta – ci girano soldi e istituzioni. La Street è antagonista all’Arte.
Un cane/cartone animato, due poliziotti che si baciano o uno squalo fatto di banconote sarebbero dei soggetti banali e insulsi per una tela, buoni al limite per una vignetta, ma giganteggiando su un muro degradato si ammantano di un certo non so che che dona loro uno status differente. È il contesto che è sacro, perché è sacra la strada, il posto più libero, sporco e maledetto che ci sia, oltre al fatto che tutto è illegale. Maledizione e illegalità, shakerati con la creatività, seducono. Oppressa da carte bollate, permessi condominiali, delibere e certificati di conformità, la Street sembra offrirci – forse per pochi attimi, giusto prima di voltare l’angolo – un’altalena colorata a volte spensierata a volte cigolante fra mille immagini.
IL MURO COME PRINCIPIO FONDANTE
Ogni azione di Street Art si relaziona al muro, che non è un semplice supporto, ma partecipa a un contesto e a un territorio dove il soggetto è pensato ed eseguito per vivere in quello scenario che per sua natura gli appartiene. I muri parlano perché hanno una storia e le figure si relazionano a questo immaginario.
Un murale vive dell’identità del luogo e molto spesso il murale è la domanda – o la risposta – proprio a una precisa situazione della sua memoria storica. Un’operazione fatta per esistere nella metropoli alle intemperie – e quindi un giorno a svanire – se asportata, anzi strappata, diventa inevitabilmente un’altra cosa. Diventa un oggetto snaturato che sarà artificialmente collocato in un luogo climatizzato.
La raffinata, sorprendente e diabolica tecnica dello strappo divelle il murale come un foglio e lo fissa su tela; ne fa quindi un quadro e, nel cambiare il supporto, ne tradisce il significato. Si comprime così uno degli ultimi processi-rituali della nostra epoca in un reperto-testimonianza che diventa, a contatto con il faretto che lo illuminerà, un falso artefatto.
Si pretende un’opera che non nasce come tale, si trasforma un processo con un telaio con l’attaccaglia, si tramuta una visione in un bene da museo a servizio della società con cui la Street Art non vuole avere nulla a che fare.
GIUSTIFICARSI CON ESEMPI PREDATORI
Tutti i sostenitori della mostra dei murali strappati (qui trovate l’intervista a Roversi Monaco, qui invece quella a Christian Omodeo), fra l’altro, riportano modelli evidentemente per loro ancora validi (il Partenone al British Museum, l’Obelisco di Axum e l’Altare di Pergamo a Berlino) che non sono certo esempi edificanti, ma storie di dominio e di predazione di un lontano e scomodo passato.
L’artista di strada ha un punto di vista diverso: la sua è una scelta consapevole di un campo che ha poco a che fare col sistema dell’arte. È una scelta di rottura, dove la strada, territorio di conflitti e cambiamenti, non ha mai avuto uno sfondo bianco.
Qualcuno tira dentro Pinturicchio e Botticelli, insomma “si è fatto sempre così” sembra dire, ma oltre ad essere diversi i tempi e i contesti, sono soprattutto i fini molto differenti, semplicemente perché la Street Art non si pone in linea di continuità con l’arte.
LA POSIZIONE DEGLI ARTISTI
Ed è quello che in sostanza dice Dado, uno street artist che parla da street artist e subito puntualizza, tanto per essere chiari, che dopo l’esperienza di Frontier, il progetto di Street Art promosso dal Comune di Bologna, molti artisti di strada a Bologna non ci mettono più piede perché la Street con l’istituzione non ci va tanto d’accordo. Dado aggiunge: “Quelle opere hanno l’obiettivo di comparire e svanire, sono come un suono”. O, come dicono, Cuoghi e Corsello, “l’arte in strada è giusto che sia in strada”.
Che una fondazione bancaria, che per sua natura vede l’opera come un valore materiale e da collezione, stia creando una collezione – senza acquistarla – approfittando della grande confusione che regna attorno ai concetti di autore, proprietà, opera, legalità e conservazione, è un forte segno dei tempi. Ai non-autori, ultimi guerrieri indomiti con i loro suoni di vernice variopinta, si manifesta un destino tragico e imminente che ne mina l’esistenza. Come un nuovo virus, come una nuova malattia in un organismo senza anticorpi, lo strappo pianificato celebra definitivamente il funerale della Street.
C’ERANO UNA VOLTA GLI ZOO
Tempo fa sono andato ai Giardini Margherita di Bologna, dove una volta c’erano i leoni; mia nonna Tosca, quando ero bambino, mi accompagnava a vederli ogni giorno, tempo permettendo. Donna d’altri tempi, per lei i giardini zoologici erano una cosa normale.
Per tanto tempo ci sono stati i leoni in gabbia, ma abbiamo poi scoperto e riconosciuto quanto fosse triste, forzato e patetico. I sostenitori degli zoo, anzi dei bioparchi, argomentano però che gli animali che stanno per scomparire debbano essere salvaguardati.
Flavio Favelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati