Sulla vignetta di Charlie Hebdo e la cattiva coscienza
“Cosa sarebbe diventato il piccolo Aylan se fosse cresciuto? Un palpeggiatore di sederi in Germania”. La recente vignetta di Charlie Hebdo non ha tardato ad attirare su di sé le più aspre accuse di razzismo. Qui di seguito proviamo a difendere la tesi opposta, e a spostare l’attenzione sull’effetto collaterale di questa vignetta: il rivelarsi della nostra cattiva coscienza.
Che non faccia ridere, che sia grossière oltremisura, inopportuna e di cattivo gusto, è fuor di dubbio. Queste non sono, tuttavia, ragioni sufficienti a fare della recente vignetta di Charlie Hebdo un saggio di xenofobia degno della destra più becera, così come recita l’antifona degli ultimi giorni. E non tanto perché il suo autore (Riss, subentrato a Charb nella direzione di CH) si dica dichiaratamente di sinistra (Libération, 23 febbraio 2015), quanto perché quella del cattivo gusto voluto, autocosciente e politicamente scorretto è un’estetica che risponde a un obiettivo preciso.
Essa mira a provocare una sorta di cortocircuito nella ragion pratica e nella facoltà di giudizio del suo destinatario, attraverso la dissacrazione dei tabù di quest’ultimo, cioè di quei valori e simboli la cui sacralità e inviolabilità sono a fondamento della sua stessa identità culturale. Nella vignetta sono violati e ridicolizzati per mezzo di immagini e parole due tabù “maggiori” (poiché millenari e, credo, universali) quali l’infanzia e la morte, qui riassunti nell’immagine di Aylan Kurdi, il bambino siriano annegato il 2 settembre 2015 nel tentativo di raggiungere Kos da Bodrum. Vi è infine un tabù “minore” (assai più recente e circoscritto, il cui processo di sacralizzazione è ancora in fieri), e cioè il rispetto delle categorie più deboli, nella fattispecie gli immigrati e le donne.
Un paio di immigrati, dalla fisionomia vagamente scimmiesca e inequivocabilmente segnata dall’eccitazione, sono ritratti nell’atto di inseguire altrettante donne. Quella in primo piano è colta in un’espressione al limite tra il terrorizzato e il divertito – di fatto suggerendoci che le donne di Colonia potrebbero aver gradito l’essere tripotées (palpeggiate) da magrebini e mediorientali sporchi e infoiati. Ed ecco come, in un colpo solo, la vignetta riesce a suscitare lo sdegno di tutti: dai molti che, a prescindere, trovano disgustoso scherzare su un bambino morto, ai pochi che lottano per i delicati destini dei rifugiati siriani, degli immigrati in generale e delle donne vittime di violenza sessuale.
Irridere chi è più debole, chi è in difficoltà o chi ha subito un’ingiustizia è un atto che non fa mai onore a nessuno, e che chiunque capace di sensibilità ed empatia non esita a condannare fermamente. Il punto è che, per quanto improbabile possa apparire a una prima e superficiale lettura, l’irrisione di rifugiati, vittime di molestie/violenze sessuali e bambini morti, non è in alcun modo l’obiettivo di questa vignetta. L’organo che vuole stimolare è, ancora una volta, la nostra cattiva coscienza. La sintesi cinica e sgradevole che la vignetta incarna mira a ridicolizzare l’attitudine di chi (politica e stampa in primis), ieri impegnato a vendere commozione a buon mercato servendosi del topos tragico della morte infantile, oggi si prodiga con egual zelo a usare i fatti di Colonia per arricchire il ritratto che vuole lo straniero (specie se africano o mediorientale) al pari di una bestia pericolosa, un animale da tenere alla larga o, al massimo, da domare.
Ma questo tipo di vignette ha anche un evidente effetto collaterale: il loro umorismo macabro e violento offende la coscienza di chi ha bisogno di sapersi al riparo dal minimo dubbio (e quindi dall’accusa) di razzismo, di misoginia o di più banale cattiveria. Nell’impeto dell’indignazione che essa suscita, rinunciamo a una sua lettura più distaccata perché troviamo oscena e inquietante l’idea che per un bambino defunto, simbolo di un’innocenza ormai resa inviolabile dalla morte, possa essere anche solo immaginato un futuro da molestatore. Ma, foss’anche: la possibilità che il piccolo Aylan potesse diventare un criminale anziché un Premio Nobel renderebbe forse la sua morte (e specie le circostanze della sua morte) una disgrazia meno intollerabile? E, soprattutto, per chi è davvero intollerabile questa morte? Lo è forse per l’occidentale che ne ha comodamente appresa la notizia a seguito dell’ennesima, morbosa campagna di accanimento mediatico?
In una società dove la violenza e il dolore della guerra non sono né più né meno che beni di consumo – e dove il più delle volte essi giungono a noi sotto forma di immagini, senza coinvolgerci se non da confortevoli spettatori – può dirsi realmente avvertita, questa indignazione cui tutti abbiamo bisogno di ricorrere per sentirci partecipi e non complici? L’ovvia conseguenza dell’eccesso di immagini e informazioni costantemente a portata di mano è la nostra assuefazione ad esse: se, da un lato, le immagini conservano la loro forza di seduzione – oggi accentuata dall’imperativo a “condividere” sui social al fine di cavarne l’istantanea gratificazione del like – la nostra resistenza al potere che esse hanno storicamente esercitato sull’uomo non può che essersi via via accresciuta. Sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato a quella di un altro uomo è cosa rara: il suo habitat è il silenzio molto più della chiassosa ridda di esternazioni che è solita affollare Facebook, la stampa o la televisione.
Anche per questo, benché si possa discutere circa la sua efficacia, l’obiettivo della vignetta di Charlie Hebdo non può essere Aylan, non i rifugiati siriani, non gli immigrati o le donne di Colonia. Tra i reali obiettivi della vignetta di Charlie Hebdo vi è la cattiva coscienza che, il più delle volte, fa della nostra commozione e indignazione da tastiera una risibile farsa da prèfiche.
Vittorio Parisi
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