Arte & innovazione. L’editoriale di Christian Caliandro
“Di classi, sussulti, scatti, lacerazioni”. Così si potrebbe sottotitolare l’intervento di Christian Caliandro per la serie di interventi coordinati da Michele Dantini e dedicati al rapporto fra arte e innovazione. Rapporto che non si risolve finché restiamo in questa distopia sociale…
UNA CULTURA CLASSISTA
Uno dei nostri problemi principali, ogni volta che ragioniamo dello stato dell’arte e della cultura in generale nel nostro Paese, consiste nel profondo classismo della società italiana (naturalmente la questione non è confinata all’Italia). Esiste infatti una barriera evidentissima – eppure sempre sottaciuta – che impedisce di fatto in ogni modo ai ceti popolari (piccola borghesia; proletariato; sottoproletariato) o a quello che ne resta di accedere ai mezzi di produzione della cultura, e agli strumenti per la sua ricezione.
Questo aspetto centrale e al tempo stesso rimosso ha avuto e continua ad avere ovviamente un impatto devastante in termini di chiusura e di conservazione; occorre tenere presente infatti che nessuna prospettiva culturale autenticamente innovativa e trasformatrice è possibile se il ceto di appartenenza di chi dovrebbe elaborarla, articolarla e diffonderla rimane uno e uno soltanto. I dispositivi di comportamento e di pensiero saranno sempre e comunque orientati, in un modo o nell’altro, unicamente – al di là di ogni cambiamento di facciata – al mantenimento dello status quo, della condizione di privilegio e di esclusività (che individuano a loro volta l’esatto opposto del ruolo e della funzione della cultura).
DAL RECINTO ALL’ECOSISTEMA APERTO
È abbastanza ovvio: l’arte, in questo Paese (e non solo, ripeto), è da decenni in mano alle classi più agiate. E, rimanendo nel nostro territorio, ciò vuol dire qualcosa di molto pratico: le mostre; le principali istituzioni; le posizioni e i processi decisionali; i “premi”; tutto ciò che insomma costituisce il famoso gatekeeping. Dice: ma non è vero; ci sono un sacco di artisti e curatori che non appartengono a famiglie benestanti; e come ti permetti di affermare una cosa del genere; ecc.
Benissimo: ma la stragrande maggioranza di quegli artisti e di quei curatori da molto tempo non fanno altro che spingere per essere inclusi, accettati proprio all’interno di quella logica e di quel recinto, perché quei famosi cancelli si aprano almeno per loro (senza fare quasi nulla per contribuire a immaginare e costruire un altro spazio di azione e di ricerca: che magari non sia più un recinto o uno spazio concentrazionario ma un ecosistema aperto) – aderendo dunque, consapevolmente o meno, a una precisa ideologia, tanto più potente perché saggiamente ha dismesso ogni orpello “ideologico”.
Al di là di ciò che pensiamo e delle parole d’ordine maggiormente in voga (gli elementi fondamentali peraltro, da che mondo è mondo, di ogni ideologia), senza un’articolata, concreta, operativa, realistica coscienza di classe non si costruisce immaginario e non si costruisce proprio alcuna coscienza artistica.
DECORAZIONE E IGNORANZA
Come ci si può aspettare allora qualcosa come una sana “ribellione culturale”, vale a dire la sostanza di ogni approccio radicalmente innovativo? L’unica cosa che ci si poteva ragionevolmente attendere in una situazione storica come quella che si è venuta a creare coincide esattamente con ciò che oggi abbiamo sotto gli occhi: un’arte in maggioranza totalmente decorativa, infantile, immatura, passivamente appiattita su istanze che appartengono ad altre generazioni. E, forse, ad altre forze – che non sono quelle creative.
Eppure, contemporaneamente, accade che nell’Italia degli ultimi dieci anni siano stati pubblicati per esempio alcuni dei romanzi più importanti dell’Occidente (e in pochi sembra che in fondo se ne siano accorti); anche l’arte visiva, ovviamente, sta esprimendo con fatica risultati notevoli: quantomeno, presagi e annunci significativi di ciò che verrà. Per quanto mi riguarda, anche se è superfluo sottolinearlo, essi corrispondono in gran parte alle opere e agli autori che ho riunito nella serie di articoli monografici Critica come fraternità (qui l’ultimo della serie, e nei related post i precedenti).
Dalla fraternità, tra le (molte) altre cose, ho imparato a scavare. Ho imparato che ogni minimo sussulto, ogni scatto – per quanto inconsulto, rabbioso, apparentemente maleducato e ignorante – ha più importanza di ogni compitino ben svolto, e per il quale serve il solito odioso libretto d’istruzioni. Perché è di questo che stiamo parlando, no? Conquistare autonomamente una zona al di là del fallimento, oppure anelare all’elargizione del premio. Da parte, sempre, di qualcun altro.
NON C’È INNOVAZIONE NELLA DISTOPIA
Come si esce dall’impasse presente? Come si risolve questa contraddizione tra due sistemi di valori incommensurabili? In modo al tempo stesso molto semplice e molto complesso – costruendo con pazienza tenacia e abilità un intero nuovo immaginario in cui far planare, atterrare la psiche collettiva della nazione. L’immaginario è il telaio, la struttura fondamentale in grado di sorreggere un orientamento alternativo; di costruire i presupposti e le precondizioni per una transizione sensata e sostenibile. È chiaro quanto e come, per un’operazione collettiva di questo tipo (che richiede certamente tempi lunghi: una ventina o una trentina di anni almeno), sia cruciale riaffermare il potenziale trasformativo dell’oggetto culturale – inteso anche e soprattutto come processo. La sua capacità latente, oscura, allucinata di intervenire nel tessuto della realtà e delle relazioni umane, per illuminarli e mutarli dall’interno: “L’opera d’arte è una liberazione, ma perché è una lacerazione di tessuti propri ed alieni. Strappandosi, non sale in cielo, resta nel mondo. Tutto perciò si può cercare in essa, purché sia l’opera ad avvertirci che bisogna ancora trovarlo, perché ancora qualcosa manca al suo pieno intendimento” (Roberto Longhi, Proposte per una critica d’arte, 1950).
E in che cosa si sostanzia questa – per ora fantasmatica – transizione? Innanzitutto, è inutile e pericoloso distinguere tra varie tipologie di innovazione: tanto per fare un esempio, non può esistere alcuna innovazione culturale all’interno di una sorta di distopia sociale. Le dimensioni dell’innovazione culturale, politica, sociale, economica si sostengono a vicenda e tendono a sovrapporsi e a coincidere. Il modello ideale, in questo senso, rimane sempre e comunque quello delle sottoculture: qualcosa che il nostro Paese, non a caso, ha conosciuto a differenza di altri finora in forma unicamente embrionale e subliminale.
Christian Caliandro
“Arte & innovazione” è un ciclo di interventi a cura di Michele Dantini
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