Artisti da copertina. Gabriele Garavaglia
Ha alle spalle studi di architettura al Politecnico di Milano e alla Bartlett di Londra. Vive a Losanna ma è stato a lungo a Berlino. La forza del lavoro di Gabriele Garavaglia, classe 1981, sta nell’inscenare azioni elementari per trasformare lo spazio e lasciare tracce della sua interazione. In che modo e attraverso quali strumenti? Creando sorprendenti cortocircuiti linguistici e percettivi, dipingendo una parete con un estintore pieno di pittura o imbrattando un muro con il lancio di un’anguria. È lui l’autore dei calzini che vedete sulla cover di Artribune Magazine numero 29.
Che libri hai letto di recente?
Solitamente combino diverse letture alla volta, sperando di innescare qualche reazione. Sul comodino vedo Drone Theory di Grégoire Chamayou, Un avamposto del progresso di Joseph Conrad e Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo di Jonathan Crary. Sempre lì dal 2013 Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes.
Che musica ascolti?
Ascolto Beyoncé.
I luoghi che ti affascinano.
Quelli periferici.
Le pellicole più amate.
Il mash-up di Soy Cuba (1964) di Mikhail Kalatozov vs Lost in Translation (2003) di Sofia Coppola.
Artisti (nel senso più ampio del termine) guida.
John Divola, John Knight, John Cage, John Sloan, John Giorno, John Armleder, John Kelsey, John Galliano… Ammiro molto poi chi è stato/a capace di rinnovare continuamente il proprio lavoro. Penso a Isa Genzken, per esempio.
Hai alle spalle studi in scienze agrarie e architettura. Quanto e come il tuo percorso ha influito sul tuo lavoro?
Se dovessi limitarmi a osservare il mio percorso, ne parlerei come di una traiettoria dall’esterno (out-door) verso l’interno (inconscio) attraverso il paesaggio. In generale penso abbia innescato un certo interesse verso quello che mi circonda.
A Berlino hai lavorato come assistente di Armin Linke e hai condiviso lo studio con Riccardo Previdi e Patrick Tuttofuoco. Hai anche partecipato a workshop e incontri con artisti e fatto alcune residenze all’estero. Cosa ti è rimasto di quelle esperienze?
In questi anni ho tentato di formarmi per prossimità e convezione. In alcuni casi queste esperienze si sono fatte ossa, in altri – penso a Riccardo e Patrick – famiglia. Sicuramente è valsa la pena viaggiare, abitare molti posti e connettermi con altrettante persone… Lavorare con Armin Linke è stato particolarmente bello.
Indaghi il rapporto tra individuo e spazio, quasi sempre con azioni elementari. Abiti gli spazi per trasformarli, per lasciare tracce. Penso alla performance con l’estintore pieno di pittura o a quella in cui lanci angurie contro una parete.
Abitare è una forma di performance basic-instinct. Come ogni azione, lascia su di te e dietro di sé tracce più o meno evidenti. Mi è capitato spesso di guardare al paesaggio non come a un insieme discreto, piuttosto come a un serbatoio di informazioni contraddittorie e significative a disposizione. Nei casi di cui parli, ho cercato di testare lo spazio fisico che mi stava di volta in volta attorno, portando al limite il mio modo di abitarlo.
Che ruolo hanno gli oggetti o ciò che rimane dei tuoi interventi?
È un argomento cruciale sul quale sto lavorando e attorno al quale svilupperò la mia ricerca nei prossimi mesi. M’interessa molto la relazione tra oggetto e soggetto. Finora posso dire di aver usato oggetti come tool per attivare scenari e generare una sorta di aggiornamento del sistema reale. Allo stesso tempo ho utilizzato la performance come strategia per la produzione di opere sotto forma di tracce. Com’è successo durante la mostra W 3 L λ a Viafarini oppure con Poltergeist, una serie di eventi causati durante la notte che influenzavano l’habitat del giorno successivo.
“Manometti” con gesti molto semplici l’ordine stabilito delle cose, dando vita a cortocircuiti linguistici e percettivi. Penso agli interventi che hai fatto in Giappone.
In quel caso ho deciso di adottare, come statement di partenza, la possibilità di lavorare al netto di ogni produzione. Questo ha caratterizzato tutto quello che ho fatto nel 2011 e nel periodo successivo: una serie di manipolazioni (e ricodificazioni) minimal-aggressive di porzioni di contesto. In The wrong place at the right moment apro e chiudo erroneamente i vetri della facciata del centro CCA Kitakyushu, privando di senso il grande logo all’ingresso.
Intervieni sempre in spazi chiusi, delimitati?
Non sempre. Mi è capitato di intervenire in spazi pubblici o semi-pubblici esterni. Ad esempio in Giappone, dove la struttura sociale è particolarmente rigida e quindi reattiva, oppure a Istanbul e Nicosia, in zone urbane organizzate secondo le logiche della città informale. Allo stesso tempo gli spazi chiusi – nello specifico la “tecnologia” white cube – consentono di isolare e dunque mostrare con precisione chirurgica un’idea. Ho cercato di sfruttarli il più possibile.
Di recente hai pubblicato e presentato il libro 299 792 458.
È un’edizione di 100 copie in stampa Risograph, pubblicata da Friends Make Books. È servita a condensare una serie di contributi sviluppati con Giacomo Santiago Rogado durante e dopo la mostra 299 792 458. Il titolo ha a che fare con la velocità con cui percepiamo le cose. La pubblicazione contiene tra l’altro una versione estesa dei testi teorici di Guido Santandrea e Gabriella Acha.
Com’è nata l’immagine che hai creato per la copertina di questo numero?
Un pomeriggio in studio, guardando i miei calzini sottosopra.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #29
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