Quali notizie dal fronte? Sulla Biennale di Architettura
Dopo la conferenza stampa del 22 febbraio, di cui vi abbiamo raccontato i cenni salienti, torniamo con una riflessione più ampia sui temi lanciati da Alejandro Aravena per la prossima Biennale di Architettura di Venezia. Tra punti deboli e opportunità, in attesa dell’opening del prossimo maggio. Ci chiediamo: sarà davvero così militante questa Biennale?
DA CHATWIN AD ARAVENA
Quando Bruce Chatwin fotografò Maria Reiche in bilico su una scala di alluminio nel deserto peruviano, l’archeologa tedesca stava studiando le linee di Nazca. Ma spesso le immagini sono soggette a derive polisemiche: così accade che, nel 2016, questa foto sia scelta da Alejandro Aravena come simbolo della 15. Mostra di Architettura della Biennale di Venezia e diventi luogo del transfert dove, dice Paolo Baratta, la signora è metafora della Biennale stessa, e la landa desolata che la circonda rappresenta la cattiva architettura.
Su questa scala si regge il paradigma di Reporting from the Front, strumento di innesco della sua operazione propedeutica: la conquista di un punto di vista diverso, un angolo di visione più ampio, un “expanded eye” che eviti il rischio di “dare la risposta giusta alla domanda sbagliata”.
UNA BIENNALE DI FRONTIERA?
Lo sguardo dall’alto porta a una visione in pianta, in cui convivono quelle che Aravena riconosce essere le due anime dell’architettura: quella artistica, culturale, perfino spettacolare, e quella pragmatica, che si occupa dei tanti problemi concreti. Se il ruolo dell’architettura è contribuire a migliorare le condizioni di vita delle persone, a una varietà di esigenze corrisponderanno differenti approcci. Non dobbiamo quindi aspettarci uno scontro tra buoni e cattivi, piuttosto la condivisione di esperienze, esempi positivi di soluzioni che hanno funzionato in ogni passaggio.
Chi si aspettava l’architetto militante (aspettative legittimate anche dal linguaggio da guerrilla che Aravena stesso ha adottato sin dalla sua nomina) forse sarà rimasto spiazzato da questo afflato lirico della visione a volo d’uccello, che mette tutto sullo stesso piano e scioglie le dicotomie. E forse anche deluso dalla presenza ufficializzata delle solite – udite udite – archistar apparentemente fuori luogo nella biennale di frontiera firmata Aravena, almeno quanto la signora tedesca col vestito a fiori sembra fuori contesto nel deserto.
IL GIOCO DEL NON-CURATORE
Ed ecco che la metafora dello sguardo esteso torna ancora utile, applicandosi anche alla figura del curatore, il primo a dare il buon esempio e a spostare il proprio punto di vista. Non si schiera, si posiziona. E osserva, come noi. Aravena gioca a fare il non-curatore definendosi “ignorante e perciò senza pregiudizi”, trasportando il modello del sistema aperto (anche alle ambiguità) di Elemental su scala curatoriale.
Ma il “defilarsi” di Aravena ha anche un altro scopo. Dopo Koolhaas era forse necessaria un’operazione detox: arieggiare le stanze della Biennale rese un po’ asfittiche dal processo estenuante di analisi e ricerca cui ci aveva sottoposto l’olandese, in cui l’architettura guardava compulsivamente a se stessa e al proprio corpo smembrato. Il corpo, ora riunificato, vuole tornare a essere uno strumento di conoscenza della realtà. Basta fare qualche gradino e le beghe disciplinari dell’architettura si dissolveranno a fronte delle battaglie sociali che l’architettura tutta è chiamata a combattere.
Uniti per la causa, e pazienza se i riferimenti a fronti e battaglie sembrano stridere con l’attitudine pacifica della signora sulla scala che ricerca le tracce di una civiltà scomparsa centinaia di anni prima.
E ALLORA…
Saliamo su questa scala. A maggio scopriremo se per osservare le linee di Nazca che saranno tracciate in questi tre mesi saranno sufficienti pochi gradini, oppure bisognerà noleggiare un aereo.
O piuttosto, se non sarà il caso di scendere e andare in prima linea.
Luana Labriola
www.labiennale.org/it/architettura/
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