Carnet d’architecture. Claudio Bertorelli e l’alta sartoria urbana
Per la nuova carte blanche della rubrica Carnet d’Architecture, la parola va a Claudio Bertorelli, fondatore dello studio Asprostudio, specializzato in progetti di masterplan e valorizzazione urbana, e direttore della Fondazione Francesco Fabbri di Treviso, impegnata nella promozione e valorizzazione nel campo artistico, culturale e storico dell’innovazione, della tutela e valorizzazione della natura e dell’ambiente.
MOSTRI D’IGNORANZA
Non è facile dire a che punto siamo della crisi che in meno di cinque anni ha reso inefficaci e perfino dannosi gran parte degli strumenti urbanistici prodotti poco prima del suo inizio.
Me lo chiedo ogni giorno, trovandomi a condividere in molte parti d’Italia situazioni nelle quali il ritardo di conoscenza su ciò che può significare oggi il termine “fare urbano” genera mostri o, nel migliore dei casi, una forte perplessità quasi quanto l’asino di Buridano, che nel celebre paradosso muore di fame perché incapace di decidere quale dei due mucchi di fieno perfettamente uguali mangiare.
L’ITALIA COME UN ASINO (DI BURIDANO)
Immaginiamo quindi che anche la nostra Italia urbana si ritrovi di fronte a due pasti della stessa grandezza.
Il primo la descrive in lutto, stritolata e avvilita da crisi e norme, con valori immobiliari tendenti a zero e un mercato allo stallo. Verrebbe voglia di mangiarsi tutto, cioè di demolire tutto, azzerare il mare di lottizzazioni e capannoni che le hanno tolto lo scettro di “giardino d’Europa” (ma anche garantito la ricchezza presunta delle casse pubbliche, delle banche e degli investitori privati); oppure verrebbe voglia di fermarsi, in attesa che qualche divina provvidenza faccia ripartire quello stesso mercato speculativo che è stato causa del nostro male.
Il secondo è costituito da un’Italia che sa rischiare quando e quanto è necessario, che sa accettare il proprio territorio “come trovato” e inventare un nuovo dopoguerra sulle macerie di una urbanistica che ha inseguito il sogno determinista delle città disegnate a priori. Questo cumulo contiene la storia presente di ogni città, grande e piccola che sia, e ognuna di esse ha un tema urbano del quale ricostruire il senso e il valore.
ALTA SARTORIA URBANA
È evidente che io credo alla qualità del secondo. Non perché ami particolarmente la carne d’asino, o perché al contrario sia per la tutela del ragliante, ma perché il nostro Paese ha nella facoltà di ibridare i saperi un giacimento illimitato. È questo il vero asso della storia che può condurre il giardino d’Italia a divenire un infinito paesaggio di occasioni tutte da ridecifrare, rileggere, ridefinire, rimisurare. Ma non solo alla maniera démodé che attua Renzo Piano proponendo “piccoli consigli per il rammendo” delle periferie, essendo lui abituato in realtà a operazioni di cura antibiotica sulle aree che gli sono assegnate.
Più che di semplice rammendo, direi che l’Italia ha bisogno di “alta sartoria urbana” nelle città, svolta in agopuntura e in omeopatia, facendo leva su tutti i fattori che, messi a sistema caso per caso, possono generare un’improvvisa massa critica di soluzioni: conoscenza profonda, cultura, pezzi di comunità identitaria, liberalizzazione delle destinazioni d’uso, governance di scopo anche temporali, finanziamenti comunitari e, ovviamente, una politica all’altezza del ruolo. Che invece oggi è poco lucida e fatica ad accettare i territori incerti in cui si muovono le piattaforme progettuali più avanzate, siano esse un festival culturale, una pratica urbana o un programma complesso di riuso.
BUONE PRATICHE DI RIGENERAZIONE URBANA
Dobbiamo quindi essere massimamente felici e massimamente in allarme per questa stagione, essere consci che evocare l’articolo 9 della Costituzione Italiana (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura, […] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) senza dare attuazione alla Convenzione Europea del Paesaggio (che supera la definizione di paesaggio come solo “bel paesaggio” e pone al centro della scena le comunità abitanti come soggetti consapevoli della trasformazione) può riempire il Paese di comitati a tutela di qualcosa (o di qualcuno …), ma non di buone pratiche, né di ottimi progetti, né di un linguaggio che oggi ci restituisca il primato di essere una destinazione privilegiata.
Serve un Cesare Pavese ribelle a un Giulio Einaudi, capace di ricordargli (lettera del 14 aprile 1942) che “c’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere” e che l’Italia ha depositate in ogni luogo storie sociali, industriali, turistiche e perfino inventate.
Penso infatti al paese di Pinocchio, Collodi, dove il parco storico che conserva opere di Michelucci, Porcinai e Zanuso scompare dentro un qualunque tessuto di periferia, e invece potrebbe divenire il centro di un sistema policentrico a gittata mondiale. Ma penso anche ai comprensori sciistici sulle Dolomiti, che tardano a rinnovare la propria offerta perché è più facile vendere skypass oggi piuttosto che fare investimenti dedicati al turista 2.0. Oppure ai tantissimi capannoni e “casannoni” (così definii alcuni anni fa il modello tipologico che ha fuso la casa con l’officina in un singolare modulo flessibile) che oggi vorremmo veder demoliti (già, ma con quali soldi?) senza darci nemmeno il tempo di pensare al loro essere una straordinaria palestra di riuso in cui insediare comunità smart ad alta intesità sociale. O a molte parti della città storica italiana, nelle quali un commercio meno compulsivo e più consapevole può trainare una voglia rinnovata di spazio pubblico.
L’asino di Buridano quindi non è perplesso: ha fame e una gran voglia di esserci.
Claudio Bertorelli
www.asprostudio.it
www.fondazionefrancescofabbri.it
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