La vicenda che vede protagonista la Fondazione Brescia Musei, come molte delle questioni culturali italiane, affonda le proprie origini in una duplice natura di ragioni, a ben vedere molto più correlate di quanto si voglia ammettere: l’una, inerente l’assetto proprietario e politico; l’altra, afferente alle strategie che la Fondazione ha posto in essere per il perseguimento dei suoi stessi fini statutari.
NASCITA DELLA FONDAZIONE
Ma procediamo con ordine: nel 2003, su volontà del Comune di Brescia, nasce “Brescia Musei”, società per azioni il cui capitale era detenuto da Comune di Brescia (socio di maggioranza), Fondazione CAB (Fondazione Banca Credito Artigiano Bresciano), Fondazione ASM (fondata dall’Azienda di Servizi Municipalizzati nel 1999 e ora parte del gruppo a2a) e dalla Camera di Commercio di Brescia.
Con atto redatto in data 26 settembre 2006, la Brescia Musei spa diventa Fondazione, restando invariato l’assetto proprietario, che ha la finalità di “tutela, conservazione, studi e ricerca, valorizzazione, promozione, sviluppo turistico, economico e commerciale, dei beni e dei siti museali storici e culturali”.
Fondazione Brescia Musei ottiene l’affidamento in contratto di servizio dei musei cittadini, elencabili al 2016 in Santa Giulia Museo della Città, Brixia – Parco Archeologico di Brescia romana, Pinacoteca di Tosio Martinengo, Museo delle Armi Luigi Marzoli, Museo del Risorgimento.
Nonostante dunque possa vantare un ampio bacino di intervento e un alto valore storico, artistico e culturale dei musei che le sono stati affidati, la Fondazione non può certo dire di essere passata alle luci della ribalta per ragioni esclusivamente culturali: dopo lo scioglimento del consiglio diretto da Agostino Mantovani, la Fondazione visse un periodo di commissariamento, in cui vennero avviate collaborazioni con Artematica, protagonista, secondo l’accusa, di una truffa nella rendicontazione dei visitatori per le mostre Inca e Matisse.
IL RUOLO DI MASSIMO MININI
Nel 2014, ad assurgere alla nuova carica di presidente della Fondazione è Massimo Minini, gallerista bresciano, affiancato da un team di consiglieri eletti dalle rispettive parti. Durante l’audizione del direttore presso il consiglio comunale bresciano, emergono tuttavia delle perplessità che avranno un futuro sviluppo nell’intera vicenda: l’allora vicesindaco e consigliere Paroli interroga il consiglio circa la veridicità delle voci in base alle quali il contratto che avrebbe legato la Fondazione e il Comune avrebbe avuto durata ventennale, dando alla Fondazione notevole autonomia.
Tale questione viene rimandata a un’approvazione della bozza del contratto, segnando intanto un punto di estrema rilevanza per questa vicenda che arriva direttamente ad oggi (e che proseguirà nell’immediato futuro), con la notizia di exit da parte di alcuni dei soci fondatori, Camera di Commercio e Fondazione Cab. Notizia fra l’altro ampiamente annunciata (con articoli e lettere aperte anche sul Corriere della Sera) e motivata, dalla Camera di Commercio, in una incompatibilità tra le modifiche apportate allo Statuto, con particolare riferimento proprio a quella durata ventennale (infine inserita) del contratto tra la Fondazione e il Comune, e la sua trasformazione da un affidamento in gestione a una concessione.
Dopo l’approvazione del nuovo statuto (firmato dai cinque consiglieri restanti), l’intero consiglio di Brescia Musei è cessato in data 17 febbraio 2016, ed è contestualmente stato emanato un bando, con scadenza 7 marzo, per la nomina di nuovi membri del Consiglio. Minini, nel frattempo, ha già reso nota la sua volontà di ricandidarsi, e nel frattempo la normale amministrazione della Fondazione resta nelle mani del Direttore, unico elemento di continuità in tutta questa vicenda.
Come si evolveranno le dinamiche è presto per dirlo, e attiene più la cronaca che la riflessione. Ciò che invece preme è comprendere come nel tempo, nella vicenda della Fondazione, abbia avuto più rilevanza l’assetto istituzionale che quello di effettiva attività dell’organizzazione.
COSA NON HA FUNZIONATO
Da un punto di vista gestionale, la questione può essere riassunta in quattro punti chiave, che prendono spunto dalla Fondazione ma che, ripeto, si riscontrano in molte delle nostre città.
Un progetto poco partecipativo: dal punto di vista gestionale, emerge con forza, persino tra le file del CdA, un atteggiamento poco partecipativo per quanto concerne la programmazione, l’inclusione sociale e il coinvolgimento dei cittadini nel percorso di consolidamento di un insieme di centri che avevano e hanno tutto il potenziale per divenire un sistema integrato di offerta culturale. Questo aspetto è anche desumibile da una piccola ricerca online, che oltre ad evidenziare ovviamente le vicende già esposte, rileva qualche specifico disservizio (di natura irrilevante) e qualche notizia legata a specifici eventi ed esposizioni. L’unico elemento che emerge con relazione a un’effettiva partecipazione da parte dei cittadini si riferisce a una raccolta fondi rivolta alla popolazione per la riapertura della Pinacoteca. Un po’ poco, forse.
Difficoltà a realizzare sistema: parte integrante di quanto emerso dall’analisi è anche forse la scarsa iniziativa rivolta alla costruzione di un concreto sistema della cultura sotto l’egida e la guida della Fondazione. La gestione, come si evince dalle iniziative realizzate, non ha avuto quelle caratteristiche effettive di programmazione congiunta, di elementi sinergici concreti ed effettivi. Non basta, e questo dovrebbe essere ormai chiaro, creare una bigliettazione congiunta per affermare di avere creato un sistema di musei. Sito e biglietti a parte, questa visione d’insieme non appare affatto chiara, come dimostra lo stesso calendario degli eventi, che sì propone iniziative multiple, ma più che sinergiche sembrano concorrenti, essendo previste per la medesima fascia temporale.
Eccessiva attenzione alla governance: se in questi anni le notizie più rilevanti riguardano gli assetti proprietari, un motivo ci sarà. La governance è una parte indispensabile per qualsiasi organizzazione, un organo che soprattutto nel nostro Paese può realmente definire la visione di lungo periodo, eludendo logiche a breve che si concentrano esclusivamente sul proprio interesse personale. Da quanto è emerso, tuttavia, una maggiore attenzione al management e quindi alla concreta attuazione di piani di gestione, di inclusione sociale e di engagement con il territorio avrebbe portato a una maggiore stabilità organizzativa, così come a una maggiore attrattività verso nuovi soci, e quindi nuovi capitali, in grado di incrementare le potenzialità di impatto sul territorio.
Poca trasparenza: come può, dopo due anni, decadere un CdA per le stesse ragioni che in precedenza avevano già incontrato una forte ed evidente resistenza? Se ci fosse stato dialogo tra le varie parti, ci sarebbe stata una più forte mediazione, e oggi la Fondazione non si troverebbe di fronte a uno statuto approvato da un consiglio ridotto, e poi sciolto. Certo, la pubblicazione di un bando per trovare nuovi occupanti delle poltrone a sole 3 ore di distanza dallo scioglimento lascia anche ipotizzare che più che un caso, tutto faccia parte di un disegno perseguito nel tempo e che ora trova la propria fase di avvio, ma queste sono riflessioni che sarà opportuno fare una volta nominati i nuovi consiglieri. Intanto, non ci resta che registrare come con lo scioglimento del CdA, e con l’uscita di due soci fondatori, l’itinerario seguito sinora non abbia dato certo lustro al grande patrimonio della città di Brescia e dei suoi cittadini.
Stefano Monti
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