Dialoghi di Estetica. Parola a Raffaella Perna

Raffaella Perna è storica dell’arte contemporanea e assegnista di ricerca presso l’Università di Roma La Sapienza. Tra le sue pubblicazioni più recenti: con Francesca Gallo, “Ketty La Rocca. Nuovi studi” (Postmedia), e con Ilaria Schiaffini, “Etica e fotografia. Potere, ideologia e violenza dell’immagine fotografica” (Derive Approdi). È curatrice della mostra “Altra misura”, dedicata al rapporto fra arte, fotografia e femminismo, in corso alla Galleria Frittelli di Firenze. In questo dialogo ci siamo soffermati sul rapporto tra arte e femminismo nell’ambito delle sperimentazioni degli Anni Sessanta e Settanta, con particolare attenzione alle specificità dell’uso del medium fotografico.

Rispetto al contesto internazionale degli Anni Sessanta e Settanta, quali sono le principali caratteristiche della sperimentazione femminista nell’arte italiana?
È difficile individuare una specificità italiana: le artiste che negli Anni Settanta abbracciano le istanze del femminismo, nel nostro Paese, sono numerose e conducono ricerche per molti aspetti affini alle sperimentazioni delle artiste inglesi o nordamericane ma, a differenza di queste ultime, spesso agiscono in modo isolato.

Come si spiega questa differenza?
Il contesto in cui si trovano a lavorare è poco recettivo nei confronti di pratiche artistiche che interrogano la differenza di genere. Il sistema italiano, infatti, rimane a lungo impermeabile a queste esigenze: sono pochi i critici e le critiche militanti che nel corso del decennio accolgono le idee del femminismo e sono ancora meno i luoghi e i centri istituzionali pronti a rispondere alle richieste delle donne.
Scarsa, nel complesso, è anche la capacità delle artiste di far fronte comune, soprattutto per la paura di essere “ghettizzate”. Le eccezioni, naturalmente, non mancano: mi riferisco, ad esempio, al lavoro critico e curatoriale di Lea Vergine, Annemarie Sauzeau Boetti, Romana Loda, Mirella Bentivoglio o Simona Weller; o alle esperienze collettive della Cooperativa di via Beato Angelico a Roma o di Porta Ticinese a Milano.

Cloti Ricciardi, Expertise. Conferma di identità, 1972

Cloti Ricciardi, Expertise. Conferma di identità, 1972

Come cambia l’uso del medium fotografico in rapporto alla sperimentazione femminista in arte?
La fotografia è un alleato prezioso nel contestare le immagini del femminile diffuse nella cultura visiva occidentale, dove il corpo della donna è abitualmente sottoposto a un processo di reificazione; la peculiare natura di indice della fotografia – la sua specifica contiguità con il reale – fa sì che l’immagine fotografica si presenti come una traccia sensibile del corpo, luogo in cui si inscrivono non soltanto i segni dell’identità biologica, ma anche quelli legati al ruolo sociale e pubblico.
La fotografia consente quindi alle artiste di muoversi su un doppio binario: attraverso questo medium, da un lato, mettono in primo piano il corpo per sondarne potenzialità, limiti e desideri alla ricerca di una dimensione identitaria non più alienata e libera dai modelli maschili; dall’altro, demistificano le ideologie trasmesse proprio con e nelle immagini del corpo.

I temi affrontati in questi lavori vanno dalla rivalutazione del ruolo sociale della donna alla messa in discussione delle relazioni matrimoniali, dal rifiuto di concepire l’arte in termini di genere alla ricomprensione del corpo e della sessualità. Quanto è stato decisivo lo stretto rapporto fra teoria e pratica nella neoavanguardia femminista in quegli anni?
Il legame delle artiste italiane con la teoria e la pratica del femminismo è molto stretto. Le riflessioni di Simone de Beauvoir, Luce Irigaray, Carla Lonzi sono un punto di riferimento essenziale per la neoavanguardia femminista italiana. Molte artiste si riconoscono nel pensiero della differenza: Paola Mattioli, Diane Bond, Marcella Campagnano, Anna Oberto, Cloti Ricciardi – solo per fare alcuni esempi – partecipano ai gruppi di autocoscienza; nell’esperienza di Rivolta Femminile, insieme a Carla Lonzi, sono coinvolte artiste come Carla Accardi o Suzanne Santoro. Inoltre, alcuni dei libri fotografici più radicali pubblicati nel decennio, come Un album di violenza di Stephanie Oursler o Alfabeta di Cloti Ricciardi, vengono stampati proprio da case editrici femministe.

Arte, fotografia e femminismo in Raffaella Perna - Italia negli anni Settanta - Postmedia Books, 2013

Arte, fotografia e femminismo in Raffaella Perna – Italia negli anni Settanta – Postmedia Books, 2013

Nel tuo libro Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta sottolinei che il focus su corpo e sessualità nel lavoro di diverse artiste rivela anche potenziali simmetrie con il Surrealismo. In che modo?
Il Surrealismo è il movimento che forse più di ogni altro ha dato importanza alle pulsioni erotiche, alla sfera corporea, al perturbante. Per tale ragione, diverse artiste negli Anni Settanta lo guardano con interesse; al contempo, tuttavia, ne criticano gli aspetti misogini.
In molti tableaux fotografici Verita Monselles, ad esempio, demistifica l’iconografia del manichino surrealista: nelle sue opere è l’uomo a essere rappresentato come fantoccio, mentre la donna è una presenza viva e conscia della sua alterità.

In che modo, sfruttando il suo legame con la realtà e la sua natura indicale, il medium fotografico diventa mezzo espressivo che permette alle artiste di ripensare la condizione femminile e di affrontare taluni dei temi citati sopra?
La natura indicale della fotografia – il suo carattere di impronta della realtà – fa in modo che essa sia lo strumento più adatto a certificare e autenticare l’identità non solo sul piano sociale e politico, ma anche su quello artistico. In quanto emanazione diretta dell’oggetto che ritrae, l’immagine fotografica sembra capace di conservare qualcosa dell’anima della persona assente, “l’aria”, come scriveva Roland Barthes. Per questo la sperimentazione fotografica è un’arena ideale per le artiste femministe, impegnate in ricerche basate sull’esplorazione dell’identità, sul recupero delle istanze del corpo e del vissuto e sulla raccolta di ricordi e memorie personali.
Numerose artiste ricorrono alla fotografia per raccontare se stesse e la propria esperienza di vita, sperimentando nuove strade che si allontanano dalla logica dell’immagine rubata o dal paradigma dell’“istante decisivo”, per instaurare relazioni di vicinanza ed empatia tra chi fotografa e chi viene fotografato. Penso, ad esempio, a opere come Faccia a faccia o Sara è incinta di Paola Mattioli, dove la fotografia è concepita come strumento di “relazione”: le donne ritratte partecipano allo scatto e sono consapevoli di come il proprio corpo verrà colto dall’obiettivo. La fotografia dà quindi alle donne il potere di rappresentare se stesse in modo non conforme ai canoni femminili vigenti.

Tomaso Binga,1977

Tomaso Binga,1977

Nel lavoro di talune artiste – penso per esempio ad Adrian Piper – la riflessione sulle discriminazioni, sulle differenze di genere e di appartenenza culturale sono legate in profondità all’affermazione del concettualismo in arte. Possiamo individuare il medesimo legame anche nel lavoro delle artiste attive in Italia?
Sì, certo. L’interesse per il linguaggio verbale, alla base di molte opere dell’arte concettuale, è un tratto peculiare di molte artiste italiane o attive in Italia. I lavori di Nicole Gravier, Libera Mazzoleni o delle numerose artiste legate alle correnti verbo-visive, tra cui Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Anna Oberto, Tomaso Binga ecc. denunciano il sessismo implicito nel linguaggio verbale, percepito come una forma di espressione inautentica e legata alla cultura maschile.

Sul piano degli sviluppi della ricerca fotografica, quali sono stati i più importanti risultati conseguiti attraverso le sperimentazioni delle artiste femministe italiane in quegli anni?
Credo che uno dei risultati principali della ricerca femminista sia quello di avere posto l’accento sul rapporto di potere e sul voyeurismo insiti nell’atto fotografico e di avere quindi contribuito ad accrescere la consapevolezza critica sulla natura di questo mezzo.

Davide Dal Sasso

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Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…

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