Gillo Dorfles e Marina Abramovic. Anno domini 2012
Definire Marina Abramovic una “graziosa e vivace studentessa”. Anche questo si può fare, giunti a 105 anni di età e con alle spalle una carriera pazzesca. Oggi è ancora lui, Gillo Dorfles, a parlare su Artribune. E andate a leggervi cosa scriveva nel 1947 su Massimo Campigli e soprattutto cosa ci ha raccontato nell’intervista che gli abbiamo fatto qualche settimana fa.
Quando negli anni Settanta ebbi per la prima volta l’occasione, anzi la felice occasione, di incontrare Marina Abramovič nel gruppo studentesco di Belgrado, non avrei certo immaginato che la graziosa e vivace studentessa sarebbe diventata una delle più importanti, forse la più importante, rappresentante della Body Art in Europa. Il suo carattere eccezionalmente forte, e allo stesso tempo pieno di risvolti sentimentali, ha fatto sì che la giovane artista abbia potuto seguire con un’intensità ineguagliata le varie fasi del suo lavoro che l’ha portata, soprattutto per quello che riguarda il nostro paese, a parecchi interventi – a cominciare da quello del 1973 a Roma, Rhythm 10 – tutti seguiti con straordinario interesse e con notevole profitto per il pubblico. In effetti, in quelle che potremmo definire le tappe del suo percorso, mi sembra estremamente importante distinguere tra quelle che possono essere indicate come masochistiche e quelle, invece, in cui c’è un deciso risvolto esibizionistico; con il termine “masochistico” però non bisogna confondere quei tentativi, che hanno in gioco anche l’elemento sadico, simili a quelli della ben nota Orlan, che distrusse il suo volto a forza di operazioni, o a quelli di Gina Pane, che si infilava aghi nelle vene. Nel caso di Marina, invece, l’elemento masochistico è tutt’uno con quello che è l’invenzione e lo si è visto, ad esempio, in una delle prime manifestazioni milanesi (Rhythm 4, 1974), dove l’attrice si faceva esplodere un forte getto di vapore in piena faccia con l’effetto di restare spesso quasi senza parola; anche in questo caso la sensazione sgradevole sostenuta dall’artista era senz’altro accettabile e non presentava dei discorsi masochistici veri e propri.
Lo stesso si può dire dell’altra spettacolare manifestazione italiana, quella realizzata a Napoli nel 1975, Rhythm 0, che è stata certamente una di quelle più viste da un pubblico molto preparato. A Napoli Marina “metteva a disposizione” del pubblico il suo corpo, circondato da diversi oggetti di vari calibri, tra cui anche (per esempio) lamette di rasoio e una pistola carica. A questo punto il pubblico, dopo una prima esitazione, si scagliò addosso alla giovane per manipolare il suo corpo con questi oggetti, creando naturalmente delle lievi dolenze o anche qualche punto sanguinante, per via delle lamette, tutto questo di fronte a un pubblico infervorato, con un’evidente componente sadica. Non bisogna credere però che anche in questo caso la giovane avesse veramente voluto infierire contro il proprio corpo; l’interesse da parte sua era di vedere fino a che punto il pubblico partecipasse e fosse consapevole della sua partecipazione, perché il binomio Marina-pubblico è stato fin dagli inizi fondamentale per la giusta realizzazione di ogni spettacolo.
Questo fatto l’abbiamo visto in un’altra importantissima manifestazione, quella con il giovane tedesco Ulay, compagno in quel periodo di Marina, con un’esibizione a due che era in un certo senso del tutto innovatrice: Imponderabilia nel 1977. Mi è capitato di essere presente a Bologna e ho potuto constatare come il pubblico, messo di fronte ai due giovani senza vestiti, avvertiva un’incredibile volontà di avvicinare quei corpi, per cui, dopo un po’ di esitazioni, l’uditorio si muoveva verso la coppia e si infilava tra i due corpi protesi. In questo modo naturalmente si poteva assistere a una forma di esibizionismo, ma in realtà si trattava piuttosto di un coinvolgimento, non si sa bene se adescatore o sadico, da parte degli artisti.
Altre volte è accaduto che Marina sfruttasse questa sua capacità di “accettazione del male”, o se vogliamo dire dello sgradevole, con una manifestazione che – a mio avviso – è una di quelle più controverse; si trattava di quell’episodio in cui l’artista ripulisce minuziosamente un gruppo di ossa nude sparse in terra (Balkan Baroque, 1997). Naturalmente l’ambiente, l’osservazione di questi residui animali, l’azione di una donna che si sporca le mani, che le avvilisce per il trattamento di questi relitti è qualcosa di molto difficile da accettare.
In questa azione, premiata alla Biennale di Venezia con il Leone d’Oro, Marina dimostra l’impassibilità e la non suscettibilità dell’artista, e anche la capacità di stupire e di stordire quasi sempre il suo pubblico.
La Body Art, di cui Marina è una delle principali autrici, ha percorso un lungo cammino attraverso i vari territori artistici sia europei sia americani e ha ormai una coerenza che nessuno potrebbe negarle.
Nel caso di Marina, unica nella sua totale dedizione alla propria arte, si assiste a delle manifestazioni di Body Art che rivaleggiano, e anzi quasi sempre superano, quelle di alcuni artisti che si sono cimentati con gli stessi esempi. Il vero vettore del nostro essere umano è indubbiamente il nostro corpo e quando questo vettore si trasforma in opera artistica riesce a ottenere quelle occasioni teatrali, e nello stesso tempo estetiche, che nessun altro mezzo riesce a ottenere.
Marina, infatti, si avvale del suo fisico eccezionale non tanto come adescatore, e neppure come creatore di incubi e di crudeltà, ma lo fa sempre inserendo il suo lavoro in un ambito operativo particolare, che può essere la presenza del grande pubblico, oppure la presenza di un pubblico scelto e misurato. In altre parole, credo che in Marina, unica nella totale dedizione alla sua arte, abbiamo il caso di un’opera esemplare, nella quale il corpo riesce a essere quasi sempre trasformato in una vera e propria opera d’arte a sé stante. Il fatto che, proprio verso la fine del secolo scorso, si riaccendano alcuni profondi impulsi verso un recupero della corporeità nel settore delle arti visuali è certamente un fatto positivo. Specie quando questo recupero, come nell’arte di Marina, non è inficiato eccessivamente da devia-zioni morbose che ne accrescano l’efficacia.
Le moltissime testimonianze di Marina sono una prova estremamente positiva dell’interesse per un’attività che si vale del suo corpo come medium privilegiato d’espressione artistica.
Gillo Dorfles
“Marina Abramovič e il pubblico delle performance”, tratto da “Marina Abramovič. The Abramovič Method”, 24 Ore Cultura, Milano 2012. Ora in Gillo Dorfles, “Gli artisti che ho incontrato”, Skira, Milano 2015, pp. 834-837.
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #29
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati