Gillo Dorfles e Massimo Campigli. Anno domini 1947
Fra le mille cose che Gillo Dorfles ha fatto – e sta facendo – nella sua lunghissima vita, c’è anche l’attività pubblicistica. Ad esempio, su “Il Mondo Europeo” aveva una rubrica che si chiamava “Artisti allo studio”. Nel senso che erano artisti studiati da Dorfles anche e soprattutto grazie alla frequentazione dei loro… studi. Uno dei primi a finire sotto la sua lente fu Massimo Campigli. Era il 1947.
A chi voglia offrire d’un artista e di un’arte una giusta interpretazione, è giocoforza adattarsi di volta in volta a particolari forme di linguaggio e di espressione. Il critico accorto dovrà quindi fingersi psicologo o vate, filosofo o scienziato onde conformare i suoi modi ed il suo stile a quei particolari modi a quel determinato stile che gli si presenti.
Non spiaccia perciò al lettore se, nel riferire pochi cenni sulla ultima attività e sulla figura di Massimo Campigli, mi verrà fatto d’adottare spesso un linguaggio alquanto eterodosso dall’abituale gergo critico, traendo spunto da quella che è la prima realtà d’un individuo e, a maggior ragione, di un artista, ossia dalla sua realtà umana, e diciamolo pure, magica.
Campigli in vero è uno di quegli artisti in cui il fatto pittorico-creativo è sì intimamente legato al fatto costituzionale (nell’accezione più lata di questo termine) che non è possibile, a chi ne voglia indagare il reale carattere, prescindere da tale legame. Sbagliano pertanto quei critici che scorgono nelle sue opere alcunché d’artefatto, di arbitrario: imitazione di antiche forme, di civiltà sepolte, etrusche, fenicie, assire; una siffatta interpretazione della sua arte, non rivela che una chiave dell’enigma. Campigli sentì la necessità di rifarsi a quelle epoche arcaiche, ed in tale ricerca trovò la “bahnung” alla sua involuzione.
Questo introvertito attraverso la pittura scoprì una via di comunione col mondo. Né ci preme di indagare se la pittura di Campigli sia “moderna”, sia attuale; certamente è giusta per l’artista: è l’unica che può uscire dai suoi pennelli; ed è in cotesta ricerca di moduli e di primordiali embrioni formali che s’accanisce la sua ricerca.
L’archetipo a cui si riconduce tutto il suo ciclo creativo, e che ricorre dalle opere più antiche alle recentissime, è una forma femminile; forma in parte avvolta nelle paludi dell’inconscio, in parte estrinseca, attraverso la pittura, in una perseverazione rappresentativa, allucinante che fa delle sue immagini figurative delle vere immagini coatte.
Non esistono, o ben di rado, nella sua iconografia simboli maschili, ma solo simboli femminili: coppe, scale, collane, nicchie, busti e poi donne; donne a chitarra, a clessidra, a foggia di “diabolo”. Quest’artista dominato dalla luna è alla ricerca del sole. La Luna, Giove, Saturno, sono senza dubbio i suoi pianeti: la Luna gli occhi protrusi, azzurri liquescenti, il colore sfocato e spento, Saturno gli dà la predilezione per le terre, il suo aspetto cupo, il suo mutacismo, il suo autismo, Giove il suo non confessato misticismo, il suo amore per le letture arcane.
La “lunarità” di Campigli ha trovato una figura complementare in un essere femminile ma solare: Giuditta. La alta e maestosa figura di Giuditta Campigli ci riconduce ai miti egizi e al suo amore per le letture arcane.
Ora, l’artista da pochi giorni è reduce da Amsterdam dove è stato invitato ad esporre subito dopo Picasso, Matisse e Braque, al Museo Reale; la sua mostra ha avuto in Olanda un successo immenso: Campigli infatti è uno dei pochi italiani che goda tuttora all’estero d’un notevole prestigio ed è anche uno dei pochi in Italia, la cui arte – pur così facilmente criticabile ed attaccabile – si sia mantenuta costantemente personale ed inconfondibile, costruita come è sopra un’essenzialità di ricerca che non indulge mai al gusto, alla moda, alle mutevoli foghe del pubblico. Coloro che gli rimproverano di ripetersi fino all’esasperazione non hanno afferrato la realtà del suo stile: la sua arte attraversa delle tappe ben definite che consistono nella scoperta di un particolare schema, sorto dal limbo dell’Inconscio, divenuto simbolo, modulo, engramma. Il giorno che codesto cifrario segreto è purificato e tradotto in apparenza plastica e cromatica, la sua pittura se ne impadronisce e per un certo periodo di tempo lo “sfrutta” fin che non l’ha condotto ad una naturale esaustione: allora crolla l’antico modello e vien sostituito da un altro nuovo eppur intessuto e imparentato al precedente.
Incantesimi e magie parlano da queste sequenze creative: son amuleti e feticci che si rincorrono e lo spezzarsi di tale catena di sortilegi sarebbe lo spezzarsi della vita stessa dell’artista.
Prima della sua partenza per l’Olanda, andai a salutare Campigli nel suo studio milanese. Sul cavalletto un quadro incominciato di vaste dimensioni, dietro a lui il fedele specchio che gli permette di correggere, coll’osservazione dell’immagine speculare, i difetti del dipinto man mano che vien sviluppandolo, accanto a lui la sua caratteristica tavolozza a tavolino: sorta di rozzo vassoio di legno che già contiene in embrione la materia cromatica da cui trarrà vita il dipinto. Studiare la tavolozza di C. è fondamentale per rendersi conto di come è armonizzato il quadro nascituro: terra di Siena, terra di Pozzuoli, ocra gialla, terra verde e verde antica, e raramente qualche po’ di cobalto e di smeraldo; questi i “bassi numerati” sui quali egli costruisce la sua opera.
Ho veduto alcuni degli ultimi lavori appoggiati alle pareti: ancora le consuete figure femminili: donne giocoliere, donne con ombrelli, con coppe, donne e specchi, donne e uccelli. Campigli (lo riconosce lui stesso) dipinge la donna che avrebbe voluto essere, la donna che, narcisisticamente, potrebbe amare.
Privato dal normale istaurarsi del complesso edipico per particolari circostanze della sua vita infantile, egli è stato fortemente influenzato dai dogmi e dalle larve freudiane.
Ma oggi Campigli, se non fu Edipo, è Laio; e Nicoletto è, delle sue creazioni, una delle più riuscite. Questo bambino precoce e impetuoso, che ha del folletto e dell’idolo, che ha eredi tato il lampo azzurro degli occhi pater ni, è riuscito a ricondurre sul volto ieratico di Giuditta e su quello cupo e severo di Massimo, un sorriso umano e non soltanto metafisico.
Le figure donnesche che Campigli va dipingendo hanno avuto dalle labbra di Nicoletto il loro nome di battesimo: il bambino le chiama “le tate”. Le tate non sono bambole e non son donne; non son simboli e neppure decorazioni; sono creature che hanno la fissità dell’affresco e la mobilità delle immagini oniriche: coi loro bracciali, coi loro collari, i loro rituali; quasi vestali d’un culto nuovo, sacerdotesse occulte d’una strana religione intessuta di psicanalisi e di astralità.
Ricordo una giornata dell’inverno scorso, quando coi Campigli e Nicoletto andammo al Circo Equestre ad ammirare le prodezze del prof. Palione. (Quel simpatico amico dei suoi genitori, ch’ama celarsi sotto le vesti di un fantasioso professore e che il bimbo chiama “il balio” perché lo fa spesso divertire coi suoi scherzi, s’esibì, quel giorno, in un improvvisato numero equestre.) Nicoletto, imbronciato e muto seguiva le evoluzioni delle ballerine, i lazzi dei pagliacci, la ridda delle fiere ammaestrate con altezzosa indifferenza, e il piccolo gruppo familiare dei Campigli – in mezzo all’anonima folla domenicale – si ricomponeva, come guidato da un segreto cifrario, nella cristallina realtà che talora raggiungono le figure, tra di loro incatenate ed avvinte, dei suoi dipinti.
Gillo Dorfles
Testo tratto da “Il Mondo Europeo”, 1° maggio 1947. Ora in Gillo Dorfles, “Gli artisti che ho incontrato”, Skira, Milano 2015, pp. 34-37.
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #29
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