In ricordo di Umberto Eco. Tante opere, poche omissioni
È morto la scorsa notte, Umberto Eco, il 19 febbraio 2016. Ve lo abbiamo annunciato qualche ora fa. Qui ricordiamo più diffusamente alcune tappe della sua straordinaria avventura umana e intellettuale. Che nei prossimi giorni approfondiremo, dando voce a chi lo aveva conosciuto e studiato.
GLI ESORDI DA MEDIEVISTA
Era iniziata oltre sessant’anni fa, la parabola intellettuale di Umberto Eco (Alessandria, 1932 – Milano, 2016). Era iniziata all’Università di Torino, con una brillante tesi in filosofia sull’estetica in Tommaso d’Aquino, discussa con Luigi Pareyson nel 1954 e poi pubblicata – con i debiti aggiustamenti – due anni dopo. Patristica, estetica medioevale ed ermeneutica: che un 22enne avesse la lucidità, e soprattutto il metodo, per accostare temi e questioni tanto enormi quanto complessi senza perdere la bussola – anzi, ritarandola in maniera originale e rigorosa – era un segno laicamente divino di quali straordinari neuroni si agitassero in quella testa.
Da lì in poi, sono mille i rivoli in cui l’opera(to) di Eco si dissemina. Sempre con quel Witz che lo rende sagace, brillante, innovativo. Poche, pochissime le boutade: il metodo e il rigore restano una costante in ognuno degli ambiti che attraversa.
MEDIA STUDIES E SEMIOTICA
Nell’ambito dei media studies, è un pioniere. Viene appena dopo Roland Barthes, è vero, ma anni prima degli studi sul Kitsch di Gillo Dorfles. Perché se è vero che il Diario minimo è del 1963 e il celeberrimo Apocalittici e integrati (libro “odiato” da Eco, come lui stesso racconta nella silloge pubblicata in occasione dei cinquant’anni del libro) è del 1964, è altrettanto vero che entrambi i volumi raccolgono anche testi pubblicati negli anni precedenti. E pensare che Fenomenologia di Mike Bongiorno è datata 1961 fa sorridere al confronto di chi, dopo oltre mezzo secolo, crede di sparigliare le carte scrivendo di filosofia dei Simpson o di sociologia delle fashion blogger. Anche qui, però, torna un punto che Eco sottolineava senza sosta: la bontà di una ricerca la si valuta dal metodo con cui è condotta, non dalla “nobiltà” dell’oggetto su cui verte.
Ma il suo nome resta legato, almeno in ambito accademico, principalmente alla semiotica, di cui è uno degli esponenti più rilevanti, accanto a grandi padri fondatori come Peirce e a contemporanei come Greimas. In quest’ambito sono seminali libri come La struttura assente (1968) e Trattato di semiotica generale (1975) – per arrivare fino a Kant e l’ornitorinco (1997) –, dove l’insistenza sull’importanza di una “logica della cultura” non gli attira certo un coro di elogi da parte di quell’intellighenzia ancorata senza scampo al sospetto per tutto ciò che anche lontanamente sembra “scientifico”.
OPERA APERTA E FUMETTI
La questione ermeneutica non scompare però dall’orizzonte di Eco. Anzi, si innesta in maniera straordinaria con la scena coeva delle arti, dalla musica alla letteratura alle arti visive. Nascono così altre opere fondamentali, in primis Opera aperta (1962), che cresce in quel brodo di coltura e cultura che sono le neoavanguardie, lo studio di fonologia della RAI a Milano, riviste come Il Verri (incubatore del Gruppo 63), compositori come Luciano Berio, interpreti vocali come Cathy Berberian… Ed è così che poi ne discendono opere come Lector in fabula (1979) e dibattiti come Interpretazione e sovrainterpretazione (1992), dove il nodo autore-testo-lettore viene continuamente e tenacemente sciolto e ricomposto, in una tessitura ogni volta produttiva e naturalmente aperta.
Sin qui, è già la carriera di un mezza dozzina di intellettuali. E invece è solo una parte di quel che Eco ha studiato, fatto, vissuto. Perché bisognerebbe parlare ancora dei fumetti: di quel suo studente al DAMS di Bologna che si chiamava Andrea Pazienza, dell’amore per Superman, delle collaborazioni con Hugo Pratt, del cammeo in Dylan Dog… Bisognerebbe parlare della sua bibliomania e dunque della sua magnifica collezione di libri antichi, l’unico modo – ci scherzava lui stesso – per fargli incrociare personaggi tanto differenti da sé e fra loro come Marcello Dell’Utri e Oliviero Diliberto. Bisognerebbe parlare dell’impegno civile e dell’attività pubblicistica, ad esempio con l’infinita collaborazione con l’Espresso sin dalla sua fondazione nel 1955 e le centinaia di memorabili Bustine di Minerva che comparivano ogni quindici giorni al fondo del settimanale.
I ROMANZI E LE ARTI VISIVE
Bisognerebbe parlare ancora della sua attività di romanziere, con quell’esordio nel 1980 con Il nome della rosa, best-seller che probabilmente nessuno si sarebbe aspettato: chi mai avrebbe letto un “giallo” ambientato nel Medio Evo, ricolmo di citazioni in latino e traboccante di riferimenti filosofici? Attività che poi è proseguita al ritmo di un paio di romanzi a decennio, con la questione del complottismo che torna con insistenza, da Il pendolo di Foucault (1988) a Numero Zero (2015).
Bisognerebbe infine parlare di come le relazioni con l’arte visiva non si fossero mai interrotte. Dalle connessioni con l’Arte Programmata e il cercle di Olivetti (ancora il legame fra cultura umanistica e scientifica) alle collaborazioni con Eugenio Carmi – scomparso anche lui negli stessi giorni, nelle stesse ore – per tre magnifici libri per l’infanzia. Fino a quel ciclo di concerti e conferenze, mostre e proiezioni che Eco immaginò per il Louvre alla fine del 2009 sotto il titolo Vertige de la liste. E ancora, l’invito al Padiglione Italia dell’ultima Biennale di Venezia, con la videointervista che Vincenzo Trione aveva fatto realizzare da Davide Ferrario.
E poi. E poi ci sono i libri che fanno precipitare gli interessi di Eco, riconvogliandoli in singoli argomenti che paiono curiosi, bizzarri, che starebbero al loro posto in una Wunderkammer bibliografica. E che sono invece – e anche – ennesima dimostrazione di metodo. Uno su tutti: La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea (1993).
NON UNA AGIOGRAFIA
Tutto bene, quindi? No, ovviamente no. Eco non amava, giustamente, le agiografie, e probabilmente meno ancora avrebbe amato una sua agiografia. E allora bisogna dire che era umano, e dunque non infallibile. Altrimenti come avrebbe potuto liquidare Twitter – proprio lui, che è stato uno dei più acuti interpreti dei media – come un mero “luogo” in cui “si dà diritto di parola agli imbecilli”? Certo è che, se tutti gli intellettuali presentassero la medesima distribuzione di contributi utili e sfondoni, la Terra sarebbe un posto migliore. Nettamente migliore.
Marco Enrico Giacomelli
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