Inpratica. Critica come fraternità (VIII): Alessandro Bulgini
In un’epoca artistica dominata da fighetti conformisti in misura sconcertante, Bulgini non appartiene a una razza diversa da questi qui: appartiene proprio a una specie differente. Una specie estinta? Non lo so; onestamente, non credo. Intanto, gli altri sette artisti raccolti in questa serie le appartengono di diritto.
Do not go gentle into that good night,
Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage against the dying of the light.
Dylan Thomas
Che cosa sta facendo Alessandro Bulgini (Taranto, 1962)? Dove è finito?
Quando penso a lui, mi viene subito in mente Cooper, il protagonista di Interstellar: “Siamo esploratori, non agricoltori”. L’unico con lo sguardo rivolto avanti mentre tutti guardano indietro, a come si stava meglio prima. L’ultimo a vivere un’epoca che muore, e al tempo stesso il pioniere nella scoperta di un nuovo mondo e di un nuovo modo di stare al mondo. Il testimone attivo di una civiltà che non sa più sognare, che non sa più guardare il cielo né progettare il proprio futuro, ma che si accontenta di amministrare squallidamente e tristemente il proprio presente, di sopravvivere – il testimone che sceglie di agire.
Alessandro è il fratello maggiore che non ho mai avuto. Impavido e sfrontato. Ricordo che, la prima volta che l’ho conosciuto, eravamo ad Ascoli Piceno, durante una cena in uno stranissimo ristorante medievale, da un capo all’altro della tavolata a un certo punto potevo percepire le scariche elettriche non di ostilità ma di tensione, l’aria friggeva, si sentiva nell’aria la possibilità che tutto potesse accadere da un momento all’altro, e ricordo anche che ho pensato: “Finalmente”.
E in quel momento ho saputo che saremmo diventati amici. È una specie di cavaliere, con i difetti ovviamente che hanno avuto i cavalieri in tutte le epoche: vanesio, antipatico, distratto, casinista, incosciente, spesso inutilmente aggressivo e polemico… Eppure, sotto questa coltre di criticità, risiede un nucleo prezioso, forse unico nell’Italia di oggi: quest’uomo e questo artista non ha paura.
In un’epoca artistica dominata da fighetti conformisti in misura sconcertante, gente che non sarebbe in grado di modificare di una virgola la propria stessa esistenza e la propria visione del mondo, figuriamoci quella di altre persone o addirittura della realtà sociale in cui si presume che vivano; gente che, se è per questo, neanche riconosce questa realtà sociale (e politica, e economica, e culturale), perché si è abituata a vivere ficcata in uno schema asfissiante di imperscrutabili .jpeg pieni di cartacce buttate per terra e stecchi appoggiati al muro e monocromi sterilizzati, e a parlare così un linguaggio assolutamente muto…
Ecco, Alessandro non appartiene a una razza diversa da questi qui: appartiene proprio a una specie differente. Una specie estinta? Non lo so; onestamente, non credo. Intanto, gli altri sette artisti raccolti in questa serie le appartengono di diritto; e certamente, sono pronto a scommetterci, in Italia e all’estero ce ne saranno molto altri, ricchissimi di talento e di visione e di opere, che semplicemente finora non hanno avuto voce o smalto sufficiente o sono ancora troppo piccoli – ma che aspirano, oscuramente, ad essere grandi – e che magari sono terribilmente scoraggiati da ciò che vedono attorno, dall’inspiegabile incommensurabilità delle proposte insignificanti a cui si conferisce legittimazione e gratificazione rispetto a quelle che erano sono saranno le loro legittime aspirazioni. (Scoraggiante è peraltro la percezione della frattura, della spaccatura, della scollatura tra cosa è oggi un’opera e cosa potrebbe essere, chi è oggi un artista e chi potrebbe essere.)
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“Chiuso in un mondo chiuso”, Bulgini riesce a escogitare e praticare strategie per fuoriuscire costantemente dall’opera, dall’oggetto, dal prodotto – dalla decorazione. Del resto, il passaggio deciso e consapevole dalla pittura anche virtuosistica a ciò che sta facendo ora testimonia una volontà. La capacità di concentrazione, di ricavare uno spazio mentale unico e cristallino mentre ogni cosa attorno si accavalla in rumore bianco gli consente di essere uno degli autori di punta della forma artistica probabilmente più avanzata e più promettente in questo momento in Italia: quella che richiede più sforzo, pazienza e sacrificio, e che porta al momento meno riconoscimenti ufficiali; quella cioè che tende a sganciarsi completamente dagli spazi istituzionali e anche dall’apparenza, per così dire, dell’opera per concentrarsi sul territorio e sull’ecosistema in cui i processi vengono attivati, sulle persone e sulle comunità, sulle relazioni umane e sul tipo di influenza che una tale opera-nonopera è in grado di esercitare – sull’azione trasformatrice dell’arte.
(P.S. E per aver poi conferito dignità artistica al moplen e alla sedia di plastica della birra Raffo, egli sarà sempre benedetto.)
Christian Caliandro
https://alessandrobulgini.wordpress.com/
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