Inpratica. Nuove noterelle sull’Italia (X)
Nessuna innovazione può venire fuori da un rifiuto così pieno e terrorizzato della prospettiva fallimentare. Una disposizione d’animo differente, a livello individuale e collettivo, sarebbe in grado di mutare un intero immaginario e di ruotare lo scenario in cui siamo inseriti. E invece…
Straccia i tuoi fogli, buttali in una fogna,
bacalare di nulla e potrai dire
di essere vivo (forse) per un attimo.
Eugenio Montale, Diario del ’71 e del ’72 (1973)
La libertà posizionata in una strana oscura chiara limpida netta cristallina turbinosa serena zona che sta oltre il fallimento. Esattamente la zona oggi così difficile per noi italiani da raggiungere e da attingere – perché ci siamo incastrati e incagliati in questa modalità perfettina paurosa dei traumi delle difficoltà dei sacrifici e di tutto ciò che è negativo – peccato che il negativo non si possa eliminare affatto dalla vita e dalla realtà (a meno di non distaccarsi e dissociarsi da esse, cosa che puntualmente è avvenuta nell’ultimo trentennio spettacolare e continua ad avvenire…) e peccato anche che il negativo sia l’unico aspetto che conferisce senso alla vita e alla realtà, che produce senso – ma questo naturalmente risulta incomprensibile, e persino disgustoso e offensivo, per chi è cresciuto e si è addestrato all’interno di un sistema di valori che non prevede minimamente il fallimento, che lo rifiuta anzi categoricamente anche solo come concetto, e che proprio per questo fallisce miserabilmente nel tentativo di innovare. Nessuna innovazione può venire fuori da un rifiuto così pieno e terrorizzato della prospettiva fallimentare. Del rischio insito nell’esplorazione di un territorio sconosciuto – nessuna avventura, nessun risultato effettivo e non fittizio – nessuna sperimentazione, nessun passo avanti ma solo passi indietro. (Non comprendere, non voler comprendere neanche che cosa vuol dire questo “fallimento”: scavare lì dove in apparenza non c’è più da scavare; esplorare e percorrere l’inedito, lo sconosciuto; sporgersi nel vuoto. E se proprio non vuoi capirlo, per quale motivo allora hai voluto occuparti di arte e di cultura?)
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Il primo ricordo dell’infanzia è un vasto, vastissimo spiazzo di chianche con il sole che brilla tra gli ulivi e, da qualche parte nel campo visivo, la percezione di mia madre che mi tende le braccia – è una scena quasi troppo bella per essere vera, eppure io so che è esistita e l’ho vissuta, che l’ho vista (come dice Calvino, “far discendere dalla prima immagine infantile, tutto quello che si vedrà e sentirà nella vita, è una tentazione letteraria”) – in quella scena di sole e grande pavimento all’aperto su cui cammino per la prima volta, duro e solido, c’è la zona italiana per eccellenza, quella forma di serenità che si acquisisce superando il tempo e lo spazio, ponendosi prima o dopo di essi, raggiungendo un punto e una dimensione e un atteggiamento oltre il conflitto la sofferenza la confusione – solo uno come Ballard poteva riconoscere nei nostri modelli di auto questa caratteristica: “Solo le automobili italiane di concezione più avanzata riescono a superare l’aerodinamicità e a creare un ambiente proprio, strano e interiorizzato, un ambiente in cui quei corpi, quei gusci complessi sembrano voler sfuggire tanto al tempo quanto allo spazio” (Crash, 1967/1990).
Una zona compiutamente metafisica: Ungaretti, Montale, Savinio, de Chirico, Luzi, Sereni, Antonioni, Fellini, Ghirri. Una “interzona” di sospensione ermetica, di silenzio carico di tensione e di sprezzatura – un porto sepolto, un’allegria di naufragi, un meriggiare pallido e assorto, un sentirsi scabri ed essenziali, un sentimento del tempo, una frontiera, una guerra girata altrove, un avvento notturno… Un’intera sensibilità che, pur nella sua negatività, contiene potenzialità incredibili. Questa zona tipicamente italiana lascia intravedere uno stato d’animo, una condizione, che tutta l’arte e la critica dovrebbero inseguire con convinzione e determinazione. Uno stato al di là. Una condizione sfuggente, inafferrabile, evanescente, spettrale, pesantissima, e proprio per questo estremamente importante.
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Dopo la catastrofe, dopo una fine, questo stato di sospensione coincide con lo stupore: la realtà, gli oggetti, gli altri, il passato vibrano di luce propria. Riverberazione. Una condizione contemplativa che ha però un impatto durevole e “biologico” sul modo di affrontare e gestire i cambiamenti, quelli veri e non presunti, i “cambi di paradigma” – una disposizione d’animo differente, a livello individuale e collettivo, è in grado di mutare un intero immaginario e di ruotare lo scenario in cui siamo inseriti. È una zona appunto molto “italiana”, eppure oggi come sconosciuta, aliena, quasi respingente. Sembra, cioè, inaccessibile – e poche volte invece è stata accessibile come adesso.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #29
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