Lettera aperta a Goffredo Fofi
Questo lunedì, nella rubrica Inpratica curata da Christian Caliandro, riprende la parola Gian Maria Tosatti. E lo fa con una lettera aperta a Goffredo Fofi, in risposta a un suo articolo apparso su “Lo Straniero”. Il punto è: sappiamo come sta messa l’Italia. E ormai è abbastanza inutile analizzarla, denunciarla, inalberarsi. Ora è tempo di fare qualcosa.
COME AL SOLITO, MANCA LA PARS CONSTRUENS
Caro Goffredo (mi permetto il caro perché ti conosco da quindici anni, ma più o meno da dieci non ho avuto più occasione d’incontrarti), sì, condivido parola per parola, lettera per lettera, virgola per virgola questo tuo ragionamento. Non è originale, ma fila molto bene. Direi che è un’ottima sintesi, un ottimo ripasso per quelli che questa situazione la conoscono bene e un ottimo modo di raccontarla a chi, invece, non è consapevole pur essendone profondamente e costitutivamente coinvolto. Dopodiché?
Sì, perché sono veramente stufo di questi articoli in cui in modo più o meno preciso facciamo la disamina delle responsabilità degli italiani, dei politici italiani o degli intellettuali italiani. Marcuse ha intavolato questi temi quando tu eri un ragazzo e io probabilmente ero un arteriosclerotico nella reincarnazione precedente… Charles Wright-Mills lo ha anticipato quando tu giocavi con i trenini di latta e io – sempre nella reincarnazione precedente – magari perseguitavo i comunisti nell’America maccartista o venivo perseguitato perché scoprivo assieme ai miei compagni beat che il mondo era “una festa, dove si apriva ogni cuore e scorreva ogni vino”. Ora, io sono in stato avanzato della mia reincarnazione successiva, sono un intellettuale italiano che si sta facendo vecchio nella merda che tu ben definisci e non ho affatto voglia di rimestarla parlandone ancora e ancora senza costruire una scaletta per uscire dalla pozza.
Sono arcistufo degli articoli in cui è presente solo la parte destruens. E magari sono anche pieni di amici, come la Morante e la Ortese, i cui soli nomi mi commuovono, ma poi mi fanno pensare che non saranno questi eroi a tirarci fuori dal pantano attuale.
A tirar fuori me e tutti noi non sono neanche i miei colleghi che non hanno fatto veramente niente in questi anni per tentare di fare squadra, fare cordone, fare argine a questa deriva andante. E non è un caso, forse, se tra tutte le branche dell’arte che citi e che nomini, non hai nemmeno distrattamente incluso le arti visive.
Ma non ci tira fuori neanche il tuo articolo. Perché manca di una parte costruens. E penso che chi omette questa dai suoi ragionamenti è complice del sistema che tu additi come il “lato oscuro della forza“.
È TEMPO DI PENSARE INSIEME
Non ce l’ho con te, Goffredo. Non più che con tutti noi altri. Ma penso che la nostra responsabilità, quando prendiamo una penna in mano per attaccare, sia quella di schierare un esercito e non di fare una lamentazione. Altrimenti non stiamo affatto attaccando, stiamo facendo finta, spariamo a salve, e diventiamo ancora più collaborativi con quel che ci affossa perché diamo solo l’impressione che ci sia qualcuno a combattere la guerra che tu per primo, scrivi, non si sta combattendo più.
Le guerre non si combattono coi morti. Non sarà Ballard a salvarci, non sarà Anna Maria Ortese, non sarà Elsa Morante. Sì, potranno ispirarci. Ma poi servono i vivi per andare in battaglia. Vivi che magari non saranno i migliori eroi possibili, ma saranno comunque i migliori che possiamo permetterci.
Ma fintanto che non schiereremo i nostri eserciti, non li riconosceremo, non caleremo la nostra scala di eroi, non li legittimeremo col nostro riconoscerli, non penso che la situazione cambierà.
E perdonami se uso con tanta disivoltura la desueta parola “eroe”, ma lo sai quel che diceva Brecht nel suo Galileo: “Fortunata la terra che non ha bisogno di eroi”. E quest’Italia è una terra sfortunata, sfortunatissima. Lo hai scritto talmente bene che io non saprei fare di meglio. E allora, se siamo d’accordo, converrai anche tu con me che questo non può che essere il tempo degli eroi. Ma siamo noi che dobbiamo eleggerli e, forse, più di tutto, noi dobbiamo, con ciò, responsabilizzarli.
Per cui sì, facciamola la disamina del male. Ma poi basiamo il senso stesso dei nostri articoli con l’analisi del bene, delle forze costruttive che agiscono in questo momento nell’ambiente culturale del nostro paese. E non accetto, come mi è già capitato, di sentir dire che non ce ne sono o non sono sufficientemente forti. Chi lo afferma è evidentemente un ignorante e un pavido. Anche nei giudizi si deve avere il coraggio di sbagliare. Io l’ho fatto, più di una volta. Si deve avere il coraggio di credere in uomini o donne che con una mano combattono e con l’altra reggono una stampella, perché sono cresciuti nell’era della debilitazione mentale. Ma soprattutto dobbiamo spingere questi uomini e noi stessi a combattere assieme, perché le battaglie non si vincono solo con gli eroi, ma con le strategie militari (o militanti?!). Gli italiani (ma non solo), invece, vogliono brillare da soli, vogliono vincere da soli, talvolta. Dimenticandosi che, un tempo, invece di guardare alla propria carriera o alla propria originalità/vanità, scrivevano manifesti per “condividere” i propri intenti, i propri assalti a una società che sotto vesti diverse ha sempre avuto una controparte oscurantista cui l’arte – che Beuys definiva la “scienza della libertà” – si è opposta.
Ora, credo che come sempre e forse più di sempre ci sia bisogno di fare squadra, di costituire una forza intellettuale che sia utile prima di tutto a noi stessi, per essere intellettuali migliori, migliori critici, migliori artisti. Possiamo conoscere nuovi compagni di battaglie leggendo un articolo, compagni che non sapevamo di avere al fianco. Possiamo infoltire il nostro esercito e fare in modo che “nostro” voglia dire l’esercito intellettuale di quella parte d’Italia che vuole ricostruire un’identità culturale per questo paese senza fare la fine della generazione precedente, che è passata senza spostare una piuma, senza modificare di un grado la traiettoria di degrado civile e ancor prima “umano” in cui siamo stati lanciati.
FACCIAMO I NOMI…
Allora Goffredo, smettiamola di scrivere questi pezzi contro. Perché è uno sparare nel mucchio, uno sparare alla cieca. E cominciamo ad avere il coraggio di inserire i vivi e direi pure gli “effettivi”, cioè quelli che non sono ancora irrimediabilmente invecchiati e rincoglioniti, quelli che hanno già vent’anni o ancora trent’anni, oppure in ultima analisi quaranta, nei nostri discorsi allo stesso modo di come ci ben figurano sempre i morti. Non parliamo di come la cultura italiana è malmessa, parliamo di come di quale vitalità alternativa (o “disperata”) stiamo esprimendo, parliamo di chi lo sta facendo e di come ci sta riuscendo e forse magari aiutiamolo presentandogli un compagno di battaglia semplicemente accostando i loro nomi in un ragionamento… Questo credo dovrebbero i critici o qualunque intellettuale, anche un artista – perché pare che scrivano anche loro!! – quando affrontano un ragionamento critico.
E allora diciamolo che in Italia c’è una scena critica che attiene all’arte contemporanea che avrebbe delle teste di primo livello se fossero in grado di fare rete, di intrecciare i loro ragionamenti, che potrebbero arricchirsi proprio perché procedono da prospettive diverse. Mi viene da pensare a Christian Caliandro, che sta tentando da anni una rilettura trasversale della storia italiana contemporanea attraverso il lavoro degli artisti visivi in connessione però con quelli che operano nelle altre discipline. Mi viene da pensare ad Alessandro Facente, che ha inventato un modo di fare curatela che sistematizza il senso stesso di quell’aspetto del curatore d’arte contemporanea che è il punto di vantaggio rispetto a tutti gli altri critici, ossia l’essere un compagno di strada interno al percorso di costituzione dell’opera, l’essere un “embedded curator” come dice lui. Mi viene in mente Claudio Zecchi che con maniacale attenzione ha studiato la fragilità delle connessioni reali (e non presunte!!) fra comunità e quella che oggi è diventata la vera prima linea nell’ambito contemporaneo, ossia l’arte cosiddetta “relazionale”. E poi me ne vengono in mente altri, ovviamente, che stanno scavando per trovare le chiavi di una riconnessione fra l’arte e la società dopo trent’anni di diserzione, ma per ragioni di sintesi non posso citarli ora tutti.
… ANCHE QUELLI DEGLI ARTISTI
E sul versante degli artisti ovviamente non posso non notare che quella stessa attitudine dei critici è stata incarnata dal lavoro di autori che in alcuni casi sono addirittura giganti e che hanno dato corpo, forma, vitalità a quell’inscindibilità e appunto contemporaneità fra presente della scena, presente della rappresentazione e presente del mondo che ha scosso completamente ogni diaframma, ogni distanza, che ha (re)introdotto l’arte come elemento di sintesi all’interno delle nostre vite in modo quasi aggressivo. Parlo di Romeo Castellucci, che all’epoca del triumivirato con Chiara Guidi e Claudia Castellucci ha resuscitato per l’Europa la meccanica stessa della tragedia col ciclo dell’Endogonidia e che tra The Four Seasons Restaurant e il riallestimento di Orestea ci ha messo davanti esattamente lo stato dell’artista come traduttore dello spirito del tempo e corifeo, come a richiamarci a un ruolo storico abbandonato da troppo tempo. E poi penso al teatro e al cinema di Pippo Delbono, in cui teatro e vita sono definitivamente fusi, in cui l’esperienza artistica è esperienza di osmotica decodificazione della stessa nostra presenza in un hic et nunc che non è più paradigma del teatro, ma tempo assoluto di quell’idea beuysiana di uomo come scultura sociale.
E queste forme si trovano nel progetto enorme – e per questo inversamente proporzionale alle risorse economiche impiegate per realizzarlo – di Alessandro Bulgini che col suo B.A.R.L.U.I.G.I. e il suo Taranto Opera Viva non solo ha fatto “brillare il niente di questo momento storico” come dice lui (e far brillare qualcosa significa di nuovo dare prometeicamente luce agli uomini!), ma addirittura ha dato corpo a quell’atto titanico della battaglia, in una forma tanto umana, quanto più capace di creare adesione nel popolo (come quando legò una barchetta all’isola di Taranto Vecchia e remò fino a farsi sanguinare le mani per portare l’isola stessa fuori dal bacino inquinato dall’Ilva). E poi penso ad Andrea Mastrovito, che ha trasformato in santi una generazione di ragazzi spersi, ha costruito specchi in cui potersi guardare vedendosi concretamente martiri di un tempo oscuro e in una sottile istigazione alla rivolta che è bella e limpida come un ragionamento della Morante.
Penso a Giorgio de Finis che ha mandato in pensione l’idea di museo novecentesca e ne ha aperto uno del XXI secolo che serve a costruire tessuto sociale in una città che sembra la Tebe di Creonte. Penso ad amici che mi hanno deluso, a Giuseppe Stampone e ad Arcangelo Sassolino, che non hanno saputo dialogare quando ne hanno avuto l’occasione, ma che non per questo non hanno dato forma ad una lingua nuova, una lingua tangibile, adottabile, titanica. Penso a Davide Dormino, che porta in giro per l’Europa un rito collettivo che mira a prendere posizione, a “dire”, attraverso una scultura in cui c’è una sedia vuota che si aspetta che tu ci salga in piedi sopra. Penso a Silvia Giambrone che continua costantemente a porre nella sua arte una questione di genere che ci illudiamo spesso essere superata solo perché è invecchiata o perché ci sono nuove questioni di genere che ci appassionano di più sui social network mentre le vecchie ferite restano aperte. Penso a Pietro Marcello, al suo film che ancora gioca su questa compenetrazione assoluta tra realtà e finzione come elemento linguistico, come meccanismo tremendo per dirci che le storie che ci raccontiamo sono esse stesse la realtà. E poi ce ne sono altri che ancora dimentico, e forse ci sono anche io, col mio aver messo a ferro e fuoco Napoli, costruendoci un romanzo visivo di formazione attorno al cittadino, a migliaia di singoli cittadini, per tre interi anni della loro vita, e magari pure per aver portato il mio paradiso a Forcella rischiando una pallottola. Tutti questi artisti, e altri ancora, ma non tutti, non quelli che fanno i vetrini colorati o i complementi d’arredo, con le loro opere ci stanno costantemente spingendo a prendere posizione in un’Italia che si è ammalata di conformismo, è morta di omologazione (ne parla Pasolini egregiamente negli Appunti per un film su San Paolo) ed ora è fatta di persone “tutte uguali” proprio come i defunti.
Ecco, questo allenamento a riconsiderare la realtà come il campo di una immaginazione che “deve” diventare prassi, azione, è la cura, o parte della cura, alla situazione che tu denunci. E personalmente penso che sia molto più importante confrontarci ora sulla cura e su chi cura piuttosto che sulla malattia. Anche perché siamo morti. La malattia è finita. Adesso dobbiamo decidere se vogliamo resuscitare facendoci forza o se stiamo bene così.
Gian Maria Tosatti
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