Il fascino discreto della distopia (per ragazzi)
La trilogia di “Hunger Games” – trasposizione del ciclo narrativo di Suzanne Collins – ha riportato in auge il genere fantascientifico-distopico sullo schermo. La figura innocente e al tempo stesso brutale di Katniss, la “rivoluzionaria gentile” di Panem, rimarrà nella storia dell’immaginario occidentale. E influenzerà probabilmente più di una generazione.
Quali sono le novità della trilogia di Hunger Games rispetto al modello orwelliano e alle grandi distopie elaborate dalla new wave degli Anni Sessanta e Settanta (Silverberg, Disch, Brunner, Le Guin)? In questo caso, il conflitto tra gruppo dominante e ribelli si sviluppa innanzitutto sul terreno spettacolare, comunicativo, culturale: in maniera abbastanza paradossale, l’ambito è proprio quello dell’egemonia gramsciana. Dunque, non è solo questione di “marketing” e di “posizionamento”: le feste, i privilegi, gli spot di guerra, i reality stanno per qualcos’altro che risiede negli interstizi oscuri della (nostra) realtà sociale proiettata nel futuro.
Innanzitutto, la lotta di classe qui è compiutamente lotta generazionale – fondata concretamente sullo sfruttamento, sull’incomunicabilità, sull’incommensurabilità tra orizzonti e sistemi di valori? Oppure, in qualche modo, il nuovo e il vecchio del mondo di Hunger Games sono in grado di costruire sotterraneamente il dialogo in forma, appunto, di conflitto e di guerra civile proprio perché, al fondo, possiedono e utilizzano lo stesso linguaggio e il medesimo sistema valoriale di riferimento? Questa è la domanda, infatti, che emerge alla fine della trilogia. Quasi che il “bipensiero” indagato e scavato da Winston Smith in 1984 avesse catturato segretamente e definitivamente anche i cervelli dei ribelli, della Resistenza (senza quasi che essi, generazione dopo generazione, se ne siano accorti): “Sapere e non sapere; credere fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte; ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullano a vicenda; sapendole contraddittorie fra di loro e tuttavia credendo in entrambe, fare uso della logica contro la logica; rinnegare la morale propria nell’atto di rivendicarla […] Soprattutto, saper applicare il medesimo procedimento al procedimento stesso. Era questa, la sottigliezza estrema: essere pienamente consapevoli nell’indurre l’inconsapevolezza e diventare poi inconsapevoli della pratica ipnotica che avevate appena posto in atto. Anche la sola comprensione della parola ‘bipensiero’ ne implicava l’utilizzazione” (George Orwell, 1984).
Come avveniva in Matrix, la fantascienza contemporanea sembra non credere affatto nella dimensione “esterna”, in un “fuori” effettivo dal tutto monolitico che costituisce l’intera realtà sociale e politica della distopia. La fuoriuscita (temporale, spaziale, vitale) è immaginabile allora solo come scomposizione e disintegrazione dell’esistente; molto meno come elaborazione, progettazione e costruzione di un modello alternativo dello “stare al mondo/stare insieme”. Giunta alla conclusione – e a differenza di Winston – Katniss è cioè stranamente, in modi obliqui, consentanea al Potere di Capitolo City incarnato dal Presidente Snow.
Siamo quindi in presenza di una peculiare forma di distopia deprivata, essiccata: distopia-senza-distopia, o distopia talmente efficace e funzionale da aver eliminato anche come ipotesi – e idea – il lato riconoscibile, ripugnante, respingente di se stessa; esattamente quel lato che spinge all’immaginazione di un diverso orientamento, di un’organizzazione della comunità (dello Stato) radicalmente differente. (E questa, d’altra parte, se ci pensiamo è una costante della letteratura e del cinema di e per ragazzi degli ultimi anni: i vampiri adolescenti di Twilight possono benissimo stare in piena luce, non vogliono essere vampiri e desiderano solo innamorarsi; la Maggie protagonista del sorprendente film omonimo con Arnold Schwarzenegger è una ragazza-zombie che lotta disperatamente contro una malattia che coincide con la morte in vita, tentando di preservare la propria umanità e normalità.)
Tale mancata emersione rende in ultima analisi questi giovani – la nuova classe dirigente di Panem – per sempre e sempre sottomessi, anche in presenza di una vittoria esplicita, apparente: “Al futuro o al passato, a un tempo in cui il pensiero è libero, quando gli uomini sono differenti l’uno dall’altro e non vivono soli… a un tempo in cui esiste la verità e quel che è fatto non può essere disfatto. Dall’età del livellamento, dall’età della solitudine, dall’età del Grande Fratello, dall’età del bipensiero… tanti saluti!” (George Orwell, 1984).
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #29
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