Inpratica. Critica come fraternità (IX): quello che ho imparato

Ho imparato a scavare. Ho imparato che ogni minimo sussulto, ogni scatto – per quanto inconsulto, rabbioso, apparentemente maleducato e ignorante – ha più importanza di ogni compitino ben svolto, e per il quale serve il solito odioso libretto d’istruzioni. Giunge a conclusione il ciclo “Critica come fraternità”. Per quanto una serie del genere possa chiudersi…

Non sapeva immaginare fin dove fosse giunto
nella sua corsa, non aveva idea di quanto fosse lungo un miglio;
ma sapeva che la sua corsa l’aveva portato lontano dalle vie,
lontano dalle case, lontano dal mondo lastricato e asfaltato,
sul terriccio. Scuro, un po’ umido, irregolare, e complesso,
incredibilmente complesso…
Ursula K. Le Guin, La soglia (The Beginning Place, 1980)

All’interno di questa serie, ho scritto a proposito di Nero: “Una prospettiva che gestisce intelligentemente le macerie, assemblandole e conferendo ad esse nuova vita (= nuovo senso). Che, sulle rovine e sui rottami e sulle scorie del mondo precedente, traccia le modalità per raccontare e costruire un nuovo inizio”; “un oggetto perfettamente funzionale, anche molto bello, che riesce contemporaneamente a capovolgere questa funzione e a far intravvedere il resto, ciò che abitualmente rimane fuori dai discorsi e dalla produzione di senso, ciò che sembra inutile a prima vista e che invece è essenziale”.
Il nuovo inizio” e “il resto” sono poi la stessa cosa: direi che riferirsi a cosa hanno dato alla mia vita queste opere è il modo migliore per concludere. Lo zaino di Nero, e così tutte le altre opere degli artisti radunati in Critica come fraternità, per me hanno la capacità di interpretare concretamente la precarietà non solo e non semplicemente come disgrazia, come umiliazione collettiva, ma come una nuova, radicale ‘disposizione d’animo’ nei confronti dell’esistenza (individuale e collettiva), e della realtà sociale che ci circonda. Vale a dire, queste opere incarnano e riflettono effettivamente per me un intero, nuovo sistema di valori in grado di orientare scelte, comportamenti, stili di vita: è come vedere una microutopia, perfettamente funzionale, in azione. Questo sistema di valori prescinde totalmente da quello “in vigore” attualmente, condiviso e comune (quello, per intenderci, veicolato in questo momento dall’immaginario mainstream, dai nostri media, dalla nostra politica, dal nostro linguaggio pubblico): non si oppone affatto ad esso, ma piuttosto “scava” in esso una dimensione esistenziale alternativa.
Non una resa, ma uno scarto: la costruzione di un piano differente, sotterraneo.  (È il significato letterale di “sottocultura” – che a noi spesso in Italia, non da oggi, sfugge inspiegabilmente: sarà Croce, non lo so.)
Personalmente, posso dire che tutte queste opere mi hanno aiutato e mi stanno aiutando moltissimo a intravvedere questi possibili sviluppi in maniera più chiara: senza di esse, sarebbe stato se non impossibile, sicuramente molto molto più difficile. La fraternità è dunque nient’altro che questo scambio, questa collaborazione continua tra la critica e l’arte, questa logica di condivisione (che vuol dire anche, ovviamente, rifiuto integrale della denigrazione e della delegittimazione costante come volontà di annullamento dell’altro, unici schemi di relazione che sembrano caratterizzare questo tempo obiettivamente triste e antiumano…).
Il nuovo inizio allora consiste nel lavorare e insistere su quelle zone in cui il presente italiano è più irritato essiccato spettralizzato. Nel cominciare a sostituire un sistema di valori ‘vitale’ e vivido, umano, a un altro, totalmente disfunzionale (e letale, anche se non ce ne accorgiamo del tutto), usando magari le opere d’arte (non solo visive; ma anche libri, film, album musicali, edifici, oggetti quotidiani) come modelli di vita. Cioè: per aiutarci a comprendere come vivere meglio, in maniera più ricca e completa; quello che sempre dovrebbe essere il ruolo e la funzione dell’arte.

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Marta Roberti, Super Natural, Taipei 2015

Marta Roberti, Super Natural, Taipei 2015

Ho imparato che non dobbiamo più rimpiangere la perdita, o l’inattività, dei nostri padri (artistici, culturali, storici). I nostri padri – quelli che non sono morti – sono impazziti. Hanno lasciato andare in rovina la casa comune. Questi padri hanno sperperato tutto, ogni cosa: questi padri sono in balìa della paura. Certo, dobbiamo ancora onorarli, amarli, ma non sentirci in soggezione nei loro confronti; non pagare più pegno; non obbedire più a loro. (Amarli piuttosto come si amano dei figli.)
Considerare la loro eredità, soppesarla, senza farci schiacciare più da essa. Senza farci divorare.
Sono padri disfunzionali, è bene rendersene conto, e l’obbedienza nei loro confronti ci ha portati esattamente qui dove siamo: paralisi; sconforto; un tipo molto pernicioso di disperazione, quasi senza grandezza e nemmeno il ricordo della grandezza, una disperazione sterile perché chiusa nel proprio cinismo e nella sua infantile irritazione, catturata dalle recriminazioni continue (e non quella disperazione seria e produttiva che coincide con la forma più acuta e spaventosa di libertà: la libertà che viene, per capirci, dal non avere nulla da perdere).
Ho imparato a scavare. Ho imparato che ogni minimo sussulto, ogni scatto – per quanto inconsulto, rabbioso, apparentemente maleducato e ignorante – ha più importanza di ogni compitino ben svolto, e per il quale serve il solito odioso libretto d’istruzioni.
Ho imparato la grazia, e la sprezzatura. Ho imparato che la forza e il carattere italiani risiedono principalmente, forse, nel tradimento.
Amiamo perciò finché vogliamo la Metafisica, persino l’Arte Povera e la Transavanguardia; torniamo ad amare, per favore, l’Informale e l’Ultimo Naturalismo; e soprattutto amiamo il silenzio segreto, siderale, meccanico di certi Anni Sessanta, di alcune parole smozzicate e opere sbiancate (Il padrone, La macchina mondiale, L’eclisse, Le tentazioni del dottor Antonio, gli Animali e il Mare…): ma di un amore intelligente e non succubo.

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Giuseppe Stampone, The Architecture of Intelligence, 2015

Giuseppe Stampone, The Architecture of Intelligence, 2015

Ho imparato che non sono solo: che ci sono dei fratelli – e altri certamente se ne aggiungeranno i quali condividono la mia visione e i miei valori – arricchendoli di interpretazioni e punti di vista a me piacevolmente estranei. Ho imparato che la vittoria vera si realizza quando, come abbiamo sempre detto con Alessandro, si riesce a raggiungere un punto posizionato al di là del fallimento, e lì rimanere – quella zona perfettamente italiana di serenità disperata, l’allegria di naufragi, quella zona che costa immensa fatica e rischio e sacrificio e rimorsi e dolore toccare – e comprendere che i concetti di vittoria e sconfitta, di fallimento e successo non hanno alcun senso, sono vuoti, per il semplice fatto che non si tratta di una guerra da combattere ma di una vita da vivere, pienamente, di un processo da far crescere come crescono una pianta e una foresta – è uno sviluppo organico, ha a che fare con la biologia e non con la strategia – abitare, parlare, stare con le persone, esplorare, conoscere, viaggiare, soffrire e gioire sul serio – essere uomini prima ancora che artisti o scrittori, conquistare e capire e difendere e allargare la propria umanità.
Ho imparato che si tratta di evoluzione.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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