La coreografia come linguaggio. Intervista a Michele di Stefano
Michele Di Stefano è stato Leone d’Argento alla Biennale Danza e coreografo-ospite della National Korean Contemporary Dance Company. Ora presenta, nell’ambito del festival Equilibrio all’Auditorium di Roma, il frutto della collaborazione con la compagnia Aterballetto, già diretta da Mauro Bigonzetti, William Forsythe, Jiří Kylián, Cristina Rizzo. Lo incontriamo nuovamente, dopo l’intervista a Centrale Fies nel 2012, per discutere con lui dello sviluppo recente del suo lavoro, cercando di rintracciare continuità e punti di fuga di una carriera esemplare.
Al festival Equilibrio all’Auditorium di Roma hai presentato due lavori nati dalla collaborazione con Aterballetto: Upper East Side e la ripresa di E-Ink, coreografia del 1990 reinterpretata da due danzatori della stessa compagnia.
Nonostante siano entrambi messi in scena da danzatori di Aterballetto, Upper East Side e E-Ink sono due lavori molto diversi, a partire dalla richiesta produttiva. Upper East Side nasce dalla volontà di Aterballetto di aprire la compagnia ai coreografi contemporanei internazionali e ultimamente anche italiani. In questo caso ho deciso di utilizzare completamente il loro linguaggio, per cui sono loro stessi gli autori delle frasi di movimento, che io ho limato e disposto ritmicamente in modo che fossero costretti a prendere continue decisioni in tempo reale, rispetto all’ambiente circostante.
I danzatori entrano ed escono di scena in continuazione per questo motivo: per rigenerare la possibilità di scelta. È un lavoro sull’appoggiare la danza fuori da se stessi e sul momento d’attacco del movimento. Volevo dare a questa compagnia l’esperienza di un rapporto di complicità vivo e pericoloso attraverso un lavoro in tempo reale che non fosse un lavoro d’improvvisazione.
E per quanto riguarda E-Ink?
E-Ink si inserisce nel progetto RIC.CI di Marinella Guatterini, che riguarda la ricostruzione di coreografie degli Anni Novanta da lei ritenute importanti per la cultura coreutica italiana. Si è trattato quindi di una ricostruzione filologica e fedele di un lavoro pre-esistente, l’unico pezzo di MK scritto dalla punta del mignolo alla cima dei capelli.
In un certo senso è stato anche più difficile da realizzare rispetto all’altro, poiché i due danzatori, che sostituivano me e Biagio Caravano, sono stati immersi in una grammatica marziana e rigida, estranea ai loro corpi, finché questo linguaggio, apparentemente storto, non si è sedimentato e ha dato i suoi frutti. Dal punto di vista coreografico abbiamo ottenuto un lavoro fedele all’originale, ma con una materia corporea completamente diversa.
Nella creazione di Upper East Side ti sei affidato totalmente ai corpi. Non vi è nessun altro oggetto, colore, costume, nessun elemento di co-abitazione della scena di solito presente nei tuoi spettacoli. Anche la luce qui è assolutamente sobria. Come mai questa scelta?
È stata una scelta precisa e consapevole. Gli abiti sono neutri (a parte delle catenine d’oro da battesimo che però restano quasi invisibili) e la luce è un passaggio. Volevo lavorare su una problematica coreografica primaria, in attesa che si creino le condizioni per fare un lavoro con tutta la compagnia e con tempi differenti. In quest’occasione abbiamo lavorato in sala in condizioni ottimali ma in tempi molto stretti.
Come per E-Ink anche Giuda, in tournée quest’anno, nasce dalla ripresa di uno spettacolo di qualche anno fa. Un caso o un intento preciso?
Quando la Guatterini mi ha proposto di partecipare al progetto RIC.CI con E-Ink, pur non possedendo un senso di “repertorio”, ho pensato che l’oggetto in sé fosse interessante da ricostruire, proprio perché E-Ink è una coreografia che si costruisce su un’informazione e delle istruzioni molto precise. M’interessava dunque misurare quel tipo di geroglifico su corpi completamente diversi da quelli originari. Ciò mi ha permesso di approfondire questioni che con Robinson (2014) erano tornate nel mio lavoro: la frase, il linguaggio e la matematica della dinamica corporea.
Giuda invece ha una storia diversa. Nasce nel 2010 al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli per uno degli attori di Latella (Giovanni Franzoni) ed è ripreso oggi da Biagio Caravano e in una terza versione da ambedue i performer. Lo spettacolo mette in atto un dispositivo che permette allo spettatore un ascolto solitario (in cuffia) di un paesaggio sonoro non condiviso con il performer. Ed è per approfondire proprio questo principio di un suono che guida la visione, che abbiamo voluto rilavorare lo spettacolo. In tutti e due i casi non ho la sensazione che si tratti di un’operazione cronologica, rivisitare è andare avanti nella ricerca quando vecchi pezzi riservano ancora delle sorprese, anche e soprattutto a noi della compagnia. Ho deciso inoltre di riattivare lo stesso dispositivo sonoro di Giuda per un lavoro sulla città di Bologna nel contesto di danze urbane. Vorrei approfondire la questione dell’ascolto come generatore e selezionatore del punto di vista all’interno di un paesaggio coreografico.
Un anno di ricerca?
Sì, è un anno di ricerca e approfondimento, gireremo con i tanti pezzi che abbiamo in tournée, tra cui Hey e Sub, lavorando ai materiali del nuovo grande progetto che debutterà nel 2017.
C’è un elemento che insieme ad altri permane nel tuo lavoro fin dalle origini: l’ironia. Me ne rendo conto vedendo per la prima volta E-Ink e pensando ai tuoi lavori più recenti.
Si, è vero! L’ironia è cominciata nel momento in cui ho deciso di fare il coreografo, di occuparmi di qualcosa che non mi riguardava per niente in termini di conseguenza di processi causali. Ho adottato l’ironia come strumento di distanza che mi permettesse di suggerire soluzioni fittizie o creare delle incongruenze, rendere il tutto estremamente precario. Il mio lavoro non è mai affermativo, ma pone sempre delle domande.
Dall’inizio a oggi prevale un senso di continuità o di scarto nel modo di concepire la coreografia?
Da un cero punto di vista, è come camminare lungo una spirale, ovvero attraversare le medesime questioni a diversi gradi di profondità.
Cambia l’approccio formale, ad esempio non uso più disegni preparatori come all’epoca di E-Ink, ma permane l’attenzione alla postura che il corpo assume nel momento di attacco del movimento, nell’attimo di inizio del processo comunicativo. Come disponi il tuo corpo per comunicare all’esterno? In un certo senso si tratta di indagare la postura politica del performer. Tutti gli ultimi lavori, anche quelli riguardanti le questioni dell’esplorazione e del turismo, affrontano questo problema: chi sei tu nel momento in cui incontri l’altro?
Da Il giro del mondo in 80 giorni a Impressions d’Afrique emerge una questione che torna in Sub: relativa alla curvatura del mondo, alla geografia, al territorio. Mi incuriosisce sapere cosa evocano in te i termini “ovunque” e “altrove”. Ne parla molto il filosofo coreano Byung Chul Han contrapponendo un altrove positivo a un ovunque negativo.
La dicotomia naturalmente mi interessa, ma la interpreto in modo diverso. Io parto dal concepire la danza come strumento di generazione dello spazio del possibile, e allo stesso tempo il corpo come veicolo della possibilità progettuale di inserirsi in uno spazio che sta per avvenire.
Il corpo si pone in relazione con questo spazio che può essere contemporaneamente un altrove –cioè un luogo misterioso del dialogo infinito in cui la relazione è sempre proiettata in un’impossibilità – oppure un luogo in cui invece si afferma la possibilità, che, poiché stiamo parlando di corpo, può essere generato ovunque. “Altrove” e “ovunque” non sono quindi parti di un’opposizione. Decido di presentarmi di fronte al pubblico appunto per mostrare un corpo che guarda verso un luogo che non c’è (un altrove), e per rendere visibile questa proiezione, questo tragitto e questa traiettoria. È nell’ovunque invece che si crea il dialogo tra l’io e l’altro attraverso proiezioni corporee nello spazio.
L’incontro tra queste due dimensioni non è un “faccia a faccia”, bensì l’origine di una terza dimensione spazio-temporale: quella dell’altrove. Un altrove ha dunque le qualità di un ovunque poiché generato dall’incontro tra due persone. Questa dicotomia è per me un territorio molto fecondo, motivo per cui continuo ad approfondirla. Così, nello spettacolo Robinson, il libro di Michael Tournier da cui prendo ispirazione si riduce al momento in cui una persona (Robinson) di fronte all’oggetto del possibile (l’isola, la possibilità di una civiltà), viene completamente sconvolta dalla presenza di un’orma sulla sabbia che simboleggia la presenza dell’altro.
Negli ultimi lavori, Sub e Hey, torni in scena e lo fai attraverso la voce. Perché la voce?
Sub è un dialogo a distanza tra me e Roberta Mosca (ex Forsythe Company), l’indagine di una forma possibile di sub-rappresentazione, per dirla addirittura con Deleuze, un’interrogazione su come possa prender forma l’atto di decisionalità del performer fuori da un dispositivo d’improvvisazione. Funziona attraverso indicazioni coreografiche che invio a Roberta, a partire dalle quali costruire la sua coreografia. Ci incontriamo direttamente a teatro il giorno dello spettacolo e ultimamente io entro per darle, in diretta, ulteriori indicazioni, approfondendo il lavoro sull’informazione generatrice in scena.
La mia figura crea un elemento di continuità tra Sub e Hey. Anche in quest’ultimo pezzo io sono colui che si presenta al pubblico e parla, finché questo parlare diventa canto, perché sto lavorando molto sul play back, sull’atteggiamento posturale del corpo di fronte a un microfono. Alla fine del lavoro entrerà in scena un personaggio particolare, un uomo di una certa età in grado di riprodurre attraverso la propria voce i canti degli uccelli, normalmente a scopo di caccia. La sua voce allagherà tutto in questo suono tanto ricco quanto crudele, perché appunto è un richiamo alla morte.
Hai un forte rapporto con la scrittura, che utilizzi come veicolo di lavoro preventivo o come mezzo complementare al lavoro corporeo. In Sub, in Grand Tour ma anche nel lavoro con i tuoi collaboratori, c’è un fitto scambio di mail e letture. Che relazione si crea tra il medium scritto e quello corporeo?
Ho un rapporto privilegiato con la scrittura, e in effetti ho cominciato a fare il coreografo perché leggevo dei libri. Il momento in cui ho iniziato a pensare alla danza è stato quando ho trovato un remainder in una bancarella con le interviste a Cage e Cunningham e ho capito perfettamente ciò di cui stavano parlando. In seguito ho tentato di costruire un percorso coreografico leggendo dei testi di fisica contemporanea, poi è arrivata tutta la serie Instructions Series in cui descrivo per iscritto possibili coreografie o lavori compiuti per poi spedirli a persone “x”. Al centro c’è il potere della parola, la possibilità di modificare la realtà attraverso il potere vibrante della scrittura. Vi sono alcune parole chiave che utilizzo anche nel lavoro in sala e la cui vibrazione sarebbe intraducibile attraverso un dialogo o una discussione approfondita. La parola per me ha un potere in termini di corporeità.
Nutri un interesse verso grammatica, geografia, meteorologia, ma mi pare evidente che questi ambiti siano accomunati da un’attenzione più generale verso il linguaggio. Assolutamente sì. Sono interessato all’indagine e alla produzione di linguaggio laddove questo linguaggio riesce a restare sul piano della “significanza” (usando un termine della linguistica), cioè sul piano del rinvio continuo del senso. Mi interessa quella soglia che non si compie sul piano contenutistico ma continua a mantenere una possibilità di ambiguità, la stessa che cerco di definire nella presenza corporea. Questi linguaggi non costruiscono un disegno di relazioni segniche ma danno vita piuttosto a una variazione di pressioni e dinamiche, sfociano tutti in una dimensione metereologica. La significanza è il presagio dell’arrivo del monsone se vuoi, oppure l’odore della primavera in pieno inverno, cioè queste sensazioni sfumate e che parlano immediatamente di un altrove universale. La questione geografica è affrontata attraverso il tentativo di costruire una mappa o una mappatura dell’esistente, che però non coincide mai con la realtà del territorio. Meteorologia, geografia e lingua sono finalizzate all’utilizzo della comunicazione senza mai riuscire veramente ad afferrare l’oggetto.
A maggio sarete a Parigi per Chantier d’Europe, programma del Théâtre de la Ville?
Sì, non sono mai stato in scena a Parigi con MK, mentre in Francia siamo stati spesso e continueremo quest’anno. Porteremo Impressions d’Afrique, attraverso cui entreremo in relazione con un gruppo di adolescenti francesi. Vedremo, sono molto curioso!
Chiara Pirri
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