Paolo Colombo racconta Istanbul
Paolo Colombo ha curato la sesta edizione della Biennale di Istanbul nel 1999 e dal 2008 fa parte dello staff dell’Istanbul Modern. Recentemente ha curato una mostra incentrata su Ed Ruscha alla Pinacoteca Agnelli di Torino. Ma con lui abbiamo parlato della metropoli europea – o alle porte dell’Europa?
Sono molti gli artisti e gli scrittori rapiti da Istanbul, da questo luogo dove è possibile perdersi come in una “foresta” e che, a detta di Melville, rappresenta per il forestiero “un perfetto labirinto, stretto, chiuso, serrato”. Maurice Barrès vede nella Roma d’Oriente “una riserva d’angoscia e di piaceri”, Chateaubriand vi trova la “dissipazione” e l’odore della morte, mentre Le Corbusier, volendo citare soltanto alcuni nomi illustri (anche se sarebbe un torto non ricordare almeno Costantinopoli, il racconto breve di Edmondo De Amicis), è colpito dal “flusso impuro” delle sue vie. Qual è stata la sua prima impressione di questa città che non smette di meravigliare il viaggiatore?
Sono venuto con un’idea, legata al cantante Antonis Dhiamantidhis (conosciuto come Dalgas), a cui ho dedicato la Biennale del 1999. Ho letto tutto ciò che ho trovato in traduzione di letteratura turca, cercando il più possibile di non guardare all’aspetto “orientale/seconda Roma” della città. Nelle mie conversazioni con gli amici di Istanbul non ho trovato un grande amore per Pierre Loti, ma il desiderio che non si colga l’eccezionalità di questa città al di fuori di ogni idea preventiva.
Tutku ve Dalga / The Passion and the Wave è il titolo che ha scelto come curatore della sesta Biennale di Istanbul per evidenziare non solo l’entità fisica del mare, ingrediente dominante nella conformazione mentale e geografica di questa capitale della cultura, ma anche per puntare l’indice su “uno stato emotivo” che ha a che fare con le storie individuali, con le qualità sensoriali e con la valenza poetica dell’arte. Quale scenario ha voluto dare con questo percorso dall’alta carica emozionale?
La biennale era dedicata a Dalgas, un cantante straordinario di una forma di lamentazioni che in greco si chiamano “amanedes”. Dalgas era stato “etnicamente pulito” durante lo scambio di popolazioni fra Turchia e Grecia nel 1922. Cantava canzoni di amore e solitudine. Nel 1999, quando tutta l’attenzione andava verso un mondo globale, ho voluto presentare l’onda opposta della risacca: il fattore identitario e, come dice lei, la valenza poetica dell’arte.
La forza emotiva che ha segnato Tutku ve Dalga è stata anche un messaggio d’ottimismo all’indomani della scossa tellurica che ha colpito duramente Istanbul e tutta la zona tra Izmit e Yalova il 18 agosto 1999?
Soprattutto il desiderio di collaborare a risolvere i problemi pratici. Il terremoto è stato di 7,4 sulla scala Richter, lasciando 40mila morti e 600mila senza tetto. Con i nostri mezzi di bordo (biglietti di entrata e un’asta di beneficienza) abbiamo raccolto circa 400mila dollari per le vittime del terremoto. La mostra era stata dedicata a un cantante greco popolare del primo terzo del XX secolo. Non annunciato, all’inaugurazione venne il Patriarca di Costantinopoli, dicendo che non poteva mancare a “un ponte così grande tra le due comunità”, turca e greca. Piccoli aiuti, ma che forse hanno avuto una loro utilità pratica.
Dal 2008 è art advisor e curatore dell’Istanbul Modern. Le andrebbe di illustrare, in linea di massima, gli orientamenti estetici che ha affrontato in questi sette anni e che intende affrontare nel prossimo futuro?
Mi sono occupato del programma video dell’Istanbul Modern fino a tre anni fa, curando inoltre delle mostre con artisti turchi e internazionali. In Praise of Shadows, per esempio, era sul rapporto tra il teatro d’ombre turco e greco con il cinema d’animazione tedesco e polacco degli Anni Venti e otto artisti contemporanei. A questa mostra sono seguite Paradise Lost e Neighbors (quest’ultima sull’arte di oggi nei 26 Paesi che componevano l’Impero Ottomano, dai Balcani al Caucaso al Medio Oriente). Il 12 gennaio ha inaugurato una mostra dal titolo Till It’s Gone, sulla sostenibilità e l’arte. Curo spesso queste mostre con Çelenk Bafra, curatrice all’Istanbul Modern. Sono inoltre il consigliere per gli acquisti internazionali. Un’altra esperienza a cui tengo molto è la seconda Biennale di Mardin, che ho curato con Lora Sariaslan nel 2012. Mardin si trova a quaranta chilometri dal confine con la Siria.
Quali sono, secondo lei, i centri d’arte contemporanea, le gallerie e i musei più interessanti nel panorama attuale? E qual è il contributo universitario (se c’è un contributo universitario) nella costruzione del sistema artistico di Istanbul?
Non vorrei escludere luoghi di grande interesse… In ordine sparso, scusandomi per aver dimenticato nomi e luoghi! Arter, SALT, Elgiz Museum, Rampa, Galerist, Galerie Nev, Pilot, PiArtworks, e ovviamente Istanbul Modern.
Il legame crescente con Istanbul e con la cultura turca in generale l’ha portata a impegnarsi anche nella coproduzione di alcuni film – The Edge of Heaven (2007) e Soul Kitchen (2009) – di Fatih Akın. Com’è stata e quali frutti riflessivi ha prodotto questa esperienza con il mondo turco, filtrato dallo sguardo di un regista che pensa continuamente alle sue origini culturali?
Sono un grande estimatore di Fatih Akın. Credo che abbia imparato molto delle sue origini girando in Turchia; per me è stato un periodo interessantissimo dell’esperienza turca. Mi prendo la libertà di aggiungere un altro link a questa nostra conversazione. Con Michela Guberti, nel 2004 abbiamo fatto un documentario di 30 minuti, Mehmet and Mehmet, su due musicisti alevi a Istanbul. Il documentario è stato presentato al Festival di Locarno del 2004 e al Festival del Cinema Curdo lo stesso anno a Londra. Il documentario precede di qualche anno la mia collaborazione con Fatih Akın, ma è un lavoro a cui tengo molto.
La Turchia è oggi, per tutta una serie di questioni politiche ed economiche, sotto il mirino mediatico internazionale. Pensa che questa situazione possa nuocere all’aria cosmopolita e alla vita culturale che si respira in città?
Non credo che possa nuocere: Istanbul è da sempre una città cosmopolita. La sua posizione geografica e la grande massa critica degli abitanti fa sì che vi sia sempre un grande fluire di persone da dovunque nel mondo, e con esse pensiero, mostre, libri, musica, discussioni.
Antonello Tolve
Istanbul // fino al 5 giugno 2016
Till It’s Gone
a cura di Çelenk Bafra e Paolo Colombo
ISTANBUL MODERN
Meclis-i Mebusan Cad. Liman İşletmeleri
+90 (0)212 3347300
[email protected]
www.istanbulmodern.org
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #29
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