Milano, Pistoletto e la Mela. Storia di un (altro) errore
Spiace dirlo, vista la grandezza dell’artista, la sua storia, la sua età. Ma “La Mela Reintegrata” di Michelangelo Pistoletto, installata in permanenza alla Stazione Centrale di Milano, non pare esattamente un’opera riuscita. E a molti non piace affatto. Ecco la storia di questa scultura, con annesse critiche e considerazioni.
L’ALBA, PRIMA DELLA MELA. MONUMENTI PER LA STAZIONE DI MILANO
Un maestro è un maestro. Esperienza, ingegno, gli onori di una fulgida carriera, alcune intuizioni geniali e – nel nostro caso – un impegno forte fra ricerca artistica e responsabilità sociale. Lui, Michelangelo Pistoletto (Biella, 1933), tra i padri dell’Arte Povera, dal 1998 a capo della Fondazione Cittadellarte, incarna quell’idea di umanesimo contemporaneo in cui si fondono studio della forma, attenzione ai processi comunitari, amore per la filosofia, l’imprenditoria culturale e la creatività come veicolo di cambiamento collettivo.
L’infallibilità, però, non è di questo mondo. E anche a un maestro capita di sbagliare un colpo, di perdere un po’ di smalto. Teatro del recente inciampo è la grande Piazza Duca d’Aosta, prospiciente la Stazione Centrale di Milano. Per milioni di persone il luogo dell’approdo in città, la prima e l’ultima visione tra partenze, arrivi, ritorni; monumentale nonluogo di transito, che definire strategico è poco.
Qui, nel 2001, aveva già trovato posto l’indimenticabile Alba di Milano, concepita dall’architetto londinese Ian Ritchie in occasione del concorso Milano 2001: III Millennium – Segno luminoso, promosso dal Comune. E fu proprio la giunta di Palazzo Marino a scegliere di posizionare lì quei 30 metri d’acciaio, per 75 tonnellate di peso, con 120 chilometri di fibre ottiche destinati a illuminarsi la notte; salvo poi, appena un anno dopo, togliere di mezzo il tutto, ammettendo (testualmente) l’errore.
La scultura, soprannominata la “branda”, somigliava in affetti a un lettino da campeggio o a una serranda: una specie di stele sbilenca fasciata di fibre e inclinata all’indietro, a impallare – disarmonica e sgraziata – la sfarzosa facciata della stazione di Ulisse Stacchini, sintesi di Art Déco, razionalismo e solennità classica. Esperimento fallito, dunque, per una hub urbanistico importante e difficile da reinventare, collocato in cima all’asse prospettico di via Vittor Pisani, tra piazza della Repubblica e la stazione medesima.
LA SCULTURA DI PISTOLETTO? “UNA PROFEZIA DI CAMBIAMENTO”
Oggi, a distanza di quindici anni, il Comune ci riprova. Stavolta con un intervento permanente. Candida, mastodontica, con la sua forma piena e il suo profilo stondato, La Mela Reintegrata di Pistoletto è un nuovo corpo estraneo incastonato nel piazzale, lateralmente, in direzione del Grattacielo Pirelli. Reintegrata di nome, per nulla integrata di fatto. Il fascino non discreto della monumentalità, con tutto il potere e la potenza dell’arte pubblica, hanno colpito ancora.
Partorendo, ahinoi, un altro “errore”. Nonostante i toni entusiastici delle istituzioni – l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno ha parlato di “un’opera d’arte potente, una profezia di cambiamento” – e i molti articoli di cronaca, a volte neutrali, a volte compiaciuti, la sensazione è che l’umore diffuso sia un altro. Dai commenti più svariati sui social, ai pareri condivisi tra artisti, critici, galleristi, curatori, il giudizio che va per la maggiore pare essere uno: la mela non funziona. Non piace, non regge, non convince, non trova un perché. Sgradita all’occhio, debole sul piano del concetto. E più che di debolezza, bisognerebbe parlare di inefficacia.
IL NO DEL CONSIGLIO DI ZONA
Con 11 tonnellate di peso, 8 metri di altezza e 7 di diametro, la super mela sbarcava a Milano in una versione green, più leggera, in occasione di Expo. Ricoperta di un manto erboso, a maggio 2015 veniva collocata in Piazza Duomo, a interpretare i valori legati all’ambiente, al paesaggio, al rispetto della natura, senza dimenticare prodigi e virtù dello sviluppo scientifico-tecnologico. Poi, per tutta la durata dell’Esposizione Universale, venne spostata al Parco Sempione, di fronte alla Palazzina Appiani.
Già allora la scultura, prodotta su iniziativa del Fai, con il sostegno del Comune di Milano, sarebbe dovuta finire in piazza Duca d’Aosta: favorevole il Comune stesso, ma contraria la maggioranza del Consiglio di Zona 2. Nulla contro la scultura, sottolinearono i consiglieri, ma la posizione non fu ritenuta idonea. E in effetti, perché condizionare la visuale del palazzo della stazione e quella del grattacielo di Giò Ponti?
A distanza di un anno, il progetto iniziale si è ora compiuto, secondo la volontà dell’artista. Non essendo vincolante il parere della Zona, i cantieri sono andati avanti e Palazzo Marino, accettata la donazione, ha installato l’opera definitiva: una versione bianchissima, immacolata.
Residenti e circoscrizione, però, non avevano tanto torto. Ancora una volta la quinta scenografica costituita dall’architettura di Stacchini, a cui l’occhio punta correndo lungo una direttrice ampia e ininterrotta, viene disturbata da una presenza eccedente, in conflitto col contesto dal punto di vista estetico, dell’ingombro e dell’ubicazione.
LA MELA DEL TERZO PARADISO, TRA RETORICA E MANIERA
Ma quello che i consiglieri non avevano sottolineato – per ovvie ragioni di competenza – era la debolezza (o inefficacia) di cui dicevamo. E qui la questione è puramente artistica. La Mela di Pistoletto, ennesima tappa della saga del Terzo Paradiso, vorrebbe rappresentare, come spiega l’autore, “l’entrata in una nuova era nella quale mondo artificiale e mondo naturale si ricongiungono, producendo un nuovo equilibrio planetario“. Torna ancora l’immagine di quella sintesi paradisiaca, in cui il regno tradito della Natura e il regno spietato della Tecnica si incontrano, generando l’armonia del futuro.
Un tema sui cui Pistoletto lavora da anni, declinandolo all’infinito. Un tema di per sé non immune al rischio di retoriche “seventies-freak”, che la reiterazione esasperata e la semplificazione in forme spesso ingenue, facili, scontate, hanno spinto verso un manierismo stanco. Girotondi, mani intrecciate, colori sull’asfalto, sculture di tappi, di sassi, di stracci, di piante, di oggetti qualunque e di persone, si susseguono ad ogni latitudine, tracciando il nuovo simbolo dell’infinito matematico, ideato da Pistoletto: l’intersezione dei tre Paradisi, con il terzo che emerge nel nodo centrale.
Ulteriore rimando a questa ricerca è dunque la Mela meneghina, lontana parente del frutto addentato da Eva; fu allora che l’uscita dell’Eden si compì, mentre iniziava la lenta caduta dell’Uomo, con la perdita del sacro, lo scollamento dall’origine e la sopraffazione del pianeta a cavallo del progresso. Il rattoppo di quel pezzetto mancante è l’artificio che sancisce l’avvenuta rigenerazione: la mela torna integra, l’uomo recupera una relazione autentica con la Terra, mentre la Tecnica, non più nemica, diventa bagaglio, opportunità.
Tutto questo si racchiude (o si dovrebbe racchiudere) nell’immagine di una mela morsicata e grossolanamente rappezzata. Ma dove sta l’incanto? Dove il balzo concettuale? Dove il brivido, la sfida dell’idea che capovolge lo sguardo? Quale folgorazione rapisce l’occhio ed il cervello? A restare è una figura pesante e straniata, da cui non si schiudono forza di contenuto e seduzione poetica. Tra storielle bibliche, inevitabili richiami al marchio Apple e suggestioni contadine, la Mela assomiglia più a un bel gadget che a un’opera d’arte. Un oggetto ludico, ironico, d’impatto, ma giusto per una linea di t-shirt, per un brand, per un progetto grafico. E certamente inadatto a soluzioni oversize: l’effetto è quello di un goffo giocattolo fuori contesto.
La questione dell’arte richiede un’altra malia, un altro incanto. Un’altra capacità di spostare la prospettiva, conservando l’enigma e non indugiando sul didascalico.
ARTE PUBBLICA, IL TEMA DELLA RESPONSABILITÀ
E a proposto d’arte pubblica, si arriva al punto. Un’opera può non riuscire al meglio, capita anche ai migliori. Se ne parla, si ragiona, si fanno analisi, qualcuno apprezzerà, qualcun altro stroncherà. Ma quando si tratta di intervenire sul tessuto di una città, occupandone spazi nevralgici con volumi non indifferenti, non sono ammesse leggerezze. La percezione dei luoghi cambia e si lavora sulla sensibilità comune, sui movimenti collettivi.
La Mela è stata donata all’amministrazione, d’accordo. Nessun investimento in denaro, con in più il prestigio di una grande firma internazionale. Ma basta questo? Bastano l’occasione gratis e un curriculum di peso per legittimare una scelta inopportuna? E viene spontaneo chiedersi: chi ha consigliato l’Assessore Del Corno? Quali professionisti, curatori, critici, architetti, hanno valutato il progetto – al di là del parere favorevole della Soprintendenza – proprio in un periodo in cui Milano torna ad occuparsi di arte pubblica in maniera approfondita (vedasi il progetto per il parco di CityLife)?
Impossibile mettere d’accordo tutti, quando si tratta di interventi pubblici, che siano opere per la mobilità, nuove architetture, monumenti, sistemazioni urbanistiche. Ma questo non dispensa dalla necessità di ponderare, di fare scelte oculate, di affidarsi al parere dei massimi esperti sul campo. Soprattutto se in gioco non c’è il destino di una rotonda nell’hinterland, ma quello di una delle più importanti piazze del Paese. Difficile dire di no a un maestro? Assolutamente sì. Ma amministrare una città significa anche questo: prima il bene della collettività, poi gli scrupoli personali e le strategie di circostanza.
Helga Marsala
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