Morte alla Street Art? Cuoghi Corsello criticano Blu
Nel giorno d’apertura della mostra bolognese sulla Street Art, torniamo sulla questione della protesta, sulle cancellazioni di Blu, sul tema degli strappi e sul futuro della Street Art, stavolta in compagnia di Cuoghi Corsello. Artisti nati e cresciuti nell’ambiente street bolognese, ma in netta polemica col collega. Entrambi favorevoli (e presenti) alla mostra.
BOLOGNA, LA SCENA DEL CONFLITTO
Al di là dei pareri discordi e delle polemiche esplose, un merito va riconosciuto all’operazione di Roversi Monaco sulla Street Art, come pure al gesto di sfida e di protesta scagliato da Blu in faccia al sistema, al mercato, a chi ha represso per decenni un linguaggio indipendente, per poi farne, all’improvviso, la nuova gallina dalla uova d’oro. E il merito sta proprio nel dibattito, nei temi portati a galla e nel conflitto generato, laddove è quella sana spinta conflittuale – non di maniera né di facciata – che pare oggi mancare allo spazio di produzione delle immagini. Street Art inclusa.
Un marea di contraddizioni emerse, insieme ai tanti interrogativi che tradiscono un’urgenza: restituire ruolo, senso e peso alla questione dell’arte, nel cuore della società. Etica, estetica e politica: la triade dispersa.
Così Blu, affezionato all’idea di un ribellismo politico-poetico senza mezze misure, sabato scorso cancellava i suoi murales bolognesi in risposta a chi ne aveva già strappati alcuni per musealizzarli (e a quanti strappano e strapperanno, nel mondo, per fare economia).
La maggioranza della platea dell’arte ha applaudito l’eroico gesto, mentre spuntava il tema dell’appartenenza dell’opera: la proprietà intellettuale resta dell’artista, va da sé, ma quella fisica di chi è? Del cittadino, dal momento che i muri (e tanto più le opere) sono un bene comune? Del committente eventuale? Di sicuro, per chi si considera un militante e un attivista, ancor più che un artista, le ragioni della lotta vengono prima delle ragioni di chicchessia. E nel caso di Blu la sostanza è proprio qua.
DAL PAC A PALAZZO PEPOLI: CHE NE È DELLA STREET ART?
Ma allora il tema è un altro: fino a che punto questa forma di guerriglia è efficace? Dove conduce? A chi giova? Siamo dinanzi a un gesto mediatico, a un manifesto politico o a un primo step di una nuova possibilità di difesa? E a cosa porterà tale strategia della sparizione – con chi strappa i muri, da un lato, e chi li cancella, dall’altro – se non a un requiem definitivo? Ovvero: proliferazione di immagini inutili, lenta ritirata delle forze migliori, anestesia generale del linguaggio…
Insomma, che ne sarà della Street Art? Decorazione, illustrazione, contestazione, svuotamento, mediocrità? O ancora vocazione sociale, cambiamento, riqualificazione? E se l’illegalità resiste, come si concilia col naturale “imborghesimento” a cui ogni cultura o forma d’arte rivoluzionaria prima o poi va incontro?
Perché in fondo quel che sta accadendo con la Street Art, quel che la mostra bolognese sta raccontando, quel che la famosa (e super controversa) operazione di Sgarbi al Pac di Milano, nel lontano 2007, aveva già sancito, rientra in un processo naturale.
Il sistema contrasta – o al massimo ignora – l’antisistema, poi pian piano lo filtra, lo ingloba, lo addomestica, se ne innamora. Fino a farne cimelio. Ed è quello il momento in cui altri piani di dissenso, altre possibilità di sperimentazione, altre estetiche della provocazione provano a germinare. Ammesso che ancora, nel tempo liquido presente, simili forme di germinazione riescano a trovare spazio, respiro.
“I GRAFFITI NON SONO DELLA SINISTRA NÉ DEI CENTRI SOCIALI”
Quanto agli artisti, da che parte stanno? Anche in questo caso il plauso per Blu è stato quasi unanime. Non fosse altro che per la carica di energia civile e per l’idea di resistenza messe in campo. Ma qualche eccezione c’è stata. La premiata ditta Cuoghi Corsello, ad esempio – che sulla strada è attiva fin dagli Anni Ottanta, proprio dalla loro Bologna, e che alla mostra di Roversi Monaco, Luca Cianaciabilla e Christian Omodeo ha detto sì – lo slancio iconoclasta di Blu non l’ha apprezzato. Tanto da gettare, nel mare agitato della Rete, un messaggio assai fuori dal coro.
Ha scritto su Facebook Claudio Corsello: “I graffiti non sono di Roversi Monaco, ma neanche della sinistra e tantomeno dei centri sociali. Lo so che vi piace tanto lo stereotipo dello streetpittore che fa i disegni figurativi con argomenti sociali, ma in strada ci sono delle differenze. Noi siamo qua a creare complicazioni, non arretriamo di un passo e facciamo le mostre che vogliamo”.
Una sferzata anti-ideologica, che non risparmia certezze, modi e maniere del milieu antagonista. E se a protestare sono due icone della cultura street italiana, la faccenda si fa interessante.
“Le ragioni di avversione alla mostra sono pretestuose, è una mostra come le altre”, ci spiega Claudio. E subito parte l’affondo: “Volendo, se si guardano i curriculum dei contestatori o dei loro eroi è evidente qualche probemino di coerenza. Hanno fatto la loro guerra personale e l’hanno ammantata di ideali, qualcuno ha cercato visibilità (a Bologna siamo entrati in campagna elettorale), altri difendono il loro monopolio su Graffiti e Street Art. Se vogliamo giocarci, sembra proprio un riprodurre le ipocrisie di una guerra umanitaria: si addita il cattivo dittatore, impersonato magnificamente da Roversi Monaco, accusandolo dell’imperdonabile crimine di museificare la Streeet Art stuprando i nobili intenti delle candide verginelle (gli street artisti). E allora tutti in battaglia! Poi si scopre che le armi di distuzione di massa non sono mai esitite”.
Insomma, un gioco tattico delle parti, con molte pose e poca consistenza.
Gli fa eco Monica Cuoghi: “Tanto lo sappiamo tutti che moltissime cose non vanno e che molta gente è abituata a sfruttare. Ma la denuncia non è più la misura per cambiare il mondo, in questo tempo. Molti, tra quelli che praticano questo tipo di arte, lavorano poi per le multinazionali, come la Nike, e fanno mostre squallide sulla Street Art che va di moda, nei musei, magari con Sgarbi”. E il dito finisce di nuovo nella piaga dell’ipocrisia.
LE RAGIONI DELLA RESISTENZA E QUELLE DELLA PARTECIPAZIONE
Nulla di imputabile a Blu, però, va detto. Che da molti anni porta avanti scelte di assoluto rigore. Lanciando messaggi chiari con i suoi muri, credendo – lui sì, ancora – nel valore della denuncia, restando indipendente, rifiutando committenze e non cedendo alle lusinghe del mercato (cosa in sé per nulla disdicevole, anzi, ma ognuno sceglie i propri codici e la propria direzione).
Blu che ha lasciato strappare alcuni suoi pezzi dai muri di Bologna, non provando a ostacolare l’operazione, non praticando alcuna strategia di tutela o di opposizione legale (come nel caso di Banksy, che boicotta i suoi street pieces trafugati non rilasciando autentiche). Blu che si ritrova, suo malgrado, tra le sale di Palazzo Pepoli, e che la sua battaglia ha voluto condurla così, lungo la linea della provocazione simbolica: implodano tutte le immagini, spariscano i disegni, si taccia anche il messaggio contro il veleno del potere, la gentrificazione, l’abusivismo e la prevaricazione, se questo messaggio non può più viaggiare – liberamente – nel solco di un’icona.
Un gesto che sacrifica lo sguardo del fruitore, che dimentica il dialogo col territorio, che se ne infischia, probabilmente, anche del ruolo dell’artista. Quel che conta è la ritirata. Epica, fragorosa, scorretta, radicale, suicida. E soprattutto testimone eloquente di una crisi.
E chi sceglie di starci dentro, invece? Chi non si scandalizza per gli strappi, per la musealizzazione e il restauro, chi non sputa sul mercato e sui guadagni, pur non rinnegando la via (parallela) dell’illegalità?
Un altro modo di restare integri, ma a cavallo del disincanto, del pragmatismo, dell’antiretorica tout court. Sparigliando un po’ le carte e soprattutto lavorando in più direzioni. Ancora Claudio: “Siamo rimasti subito perplessi dinanzi all’idea della conservazione dei murales, ma poi, sentendo le ragioni dei detrattori, ci sono sembrate così dogmatiche, rigide e moraliste che abbiamo capito che bisognava portare un po’ di complessità nel dibattito. In mostra partecipano i king di Bologna, quelli che la storia sui muri l’hanno fatta, e sono lì apposta, a dirvi: ‘Ehi, regazzi, siamo qua, svegliavi dall’ipnosi!’. Riguardo a chi ci accusa di volerci ricavare qualcosa, beh, la visibilità è fondamentale se hai qualcosa da dire, e noi siamo qui nell’occhio del ciclone. Soldi spero di guadagnarne tanti, per adesso mi sono creato solo dei gran problemi, i ‘detrattori’ hanno mostrato un volto meschino fatto di diffamazione sistematica, insulti, ricatti”.
“LUNGA VITA ALLE TAG, MORTE ALLA STREET ART”
Ma allora, la carica sovversiva della Street Art è del tutto persa o no? E se sì – com’è anche normale che sia, a un certo punto – dove intravedere nuovi spiragli di autonomia, innovazione e magari contestazione?
“Il tema è proprio nel dibattito di questi giorni”, aggiunge Claudio. “Per l’antisistema, vedere che i tuoi lavori sono desiderati proprio da chi vuoi combattere potrebbe creare il dubbio che forse non sono così destabilizzanti. Gli stereotipi sono innocui e fanno comodo a tutti, la salvezza è nella continua evoluzione. Se ti fermi sei inoffensivo, viene letta la forma ma non il messaggio e non hai più speranza di ottenere dei cambiamenti. Il mio cuore comunque sta con tutti quelli che spaccano le città di tag e throwup e con il loro fuoco. Possiamo blaterare finché vogliamo, ma è agire che conta: lunga vita alle tag, morte alla street art”.
In mostra con Roversi Monaco, dunque, ma permettendosi il lusso della più sottile fra le contraddizioni: il sentimento resta là, con chi sceglie la strada dalla parte felicemente “sbagliata”. Quella illegale, quelle delle scritte abusive e dei liberi segni di riappropriazione urbana.
“Lo spiraglio di luce immensa io lo vedo nei bambini di tutto il mondo: è il writing”, conclude Monica Cuoghi. Un ritorno alle origini, fra il trionfo della musealizzazione e la sfida dell’autocancellazione. La street art è morta? Lo si diceva, qualche decennio fa, anche della pittura. E ogni tanto lo si dice ancora. Salvo l’ennesimo, ciclico ritorno. Nel segno del cambiamento e magari di una nuova essenzialità.
Helga Marsala
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