Tony Oursler con i suoi volti allucinati; Jenny Saville e le sue facce devastate dalla violenza; le autoscopie narcisistiche di Gino De Dominicis; Arnulf Rainer e la violenza della cancellazione; Maurizio Cattelan con le sue linguacce. Dilatazioni fisiognomiche, alterazioni e fughe dal volto che sfidano la quiete anatomica dei corpi.
Warhol cercava ancora un volto, seppur disperso nella fredda serialità della riproduzione, che succedeva al ghigno delle Woman di De Kooning, ispirate dal sorriso obbligato delle commesse dei grandi magazzini.
La smorfia – con le sue declinazioni nel ghigno, nello sberleffo, nella deformazione – è il degno sostituto del volto (o del vuoto del volto). Visioni effimere che assurgono a linguaggio del contemporaneo. Un linguaggio afasico. Volti che si spezzano o si attorcigliano sotto i colpi dello specchio infranto della nostra società. E ogni specchio, si sa, è una soglia dell’al di là.
In piena età romantica, Adelbert von Chamisso introduceva il tema dell’alienazione con “l’uomo che ha venduto la propria ombra”; di lì a poco, Poe vedeva le masse come un grande volto deformato e perturbante; mentre Ibsen ci introduceva, con i suoi Spettri, alle vertigini dell’ossessione.
Nelle foto dei posseduti dall’isteria alla Salpêtrière, la smorfia non è un maquillage che sottolinea i dettagli del volto per esaltarli: opera una sospensione temporanea del sentimento di identità, e per questo può essere anche fatale. Produce una dissimmetria dello sguardo di fronte al reale sottoposto alle prove dell’incubo, allo sfinimento della fatica, alla crudeltà dello sberleffo. È uno stato di alterazione permanente della nostra società.
Come accade con Anonymous, la cui smorfia si diffrange in una moltitudine indistinta e il volto è sottratto all’identikit. Questo volto sottratto all’individuo lo ritroviamo come icona pubblicitaria, ridondanza sterminatrice di ogni singolarità dello sguardo, nei mannequin viventi della Beecroft.
Si possono ipotizzare quattro tipi di smorfie: ludica, di ribellione, di contrarietà, derivata da disturbi patologici. È come se fossimo condannati a non sfuggire a ciò che ci sfugge: il volto. Ma un volto alterato, negato, sottratto. Che si tratti di performance, pittura, fotografia, video o altro ancora, il prodotto del nostro lavoro si comporta come l’uomo che ha venduto la sua ombra, e per questo ne è ossessionato.
Questa parte negata o venduta sta ancora dentro noi: non si può scambiare con nessun’altra cosa. E diventa la caricatura, la smorfia, lo spettro che ci insegue e si vendica. L’uomo alienato non è soltanto solo con se stesso, ma è un uomo smorfiato dalla propria alienazione.
Marcello Faletra
saggista e redattore di cyberzone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #29
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