Umberto Eco dietro le quinte. Parola a Trione e Ferrario
A due settimane dalla scomparsa di Umberto Eco, Vincenzo Trione e Davide Ferrario ripercorrono la genesi di un progetto comune, che ha portato l’intellettuale e filosofo al centro di una vera e propria installazione artistica: “Sulla memoria”. In un dialogo a distanza, curatore e regista svelano i retroscena di ciò che, alla luce del presente, appare come una sorta di testamento spirituale di una grande voce della cultura italiana.
Com’è nato il progetto Sulla memoria e quali sono i suoi retroscena?
Vincenzo Trione Il progetto ha avuto una lunga gestazione. Nel momento in cui ho ricevuto l’invito a curare il Padiglione Italia, ho pensato che mi avrebbe fatto piacere avere una videoinstallazione con protagonista un grande intellettuale italiano, dotato di una fortissima visibilità internazionale. La scelta si limitava a due persone: Umberto Eco e Claudio Magris.
La scelta, anche per ragioni di mia stima profonda, è ricaduta su Eco. Il problema, però, era il fatto che Eco fosse assolutamente inconvincibile a prestarsi a questo tipo di iniziative. Lui non aveva mai accettato alcun genere di coinvolgimento in mostre o esposizioni, pur avendo scritto spesso di arte contemporanea. Ogni volta che lo incontravo, evitavo di porgli la domanda perché ero convinto di un suo rifiuto.
Come riuscì a coinvolgerlo?
V. T. Ottenuta l’adesione di Ferrario al progetto, ebbi la possibilità di sottoporre l’idea a Eco tramite il suo storico editor, Mario Andreose, ed Elisabetta Sgarbi. Ed Eco accettò.
Qual era la struttura del progetto?
V. T. In prima battuta chiesi a Obrist di intervistare Eco, uno dei pochissimi a cui Obrist, con le sue interviste, non era ancora arrivato. Accettò con entusiasmo. A fine gennaio dello scorso anno, Obrist, Ferrario, la sua troupe e io ci recammo a casa di Eco e realizzammo l’intervista. Il fatto sorprendente è che Eco, all’inizio incuriosito da Obrist, cominciò poi a guardarlo con diffidenza. Fra i due non si stabilì una buona empatia. Eco, talvolta, era infastidito dalle domande di Obrist, che risultavano un po’ troppo di superficie.
Davide Ferrario Effettivamente, durante l’intervista, anch’io captai che qualcosa non andava nella relazione tra i due. Obrist aveva un approccio accademico, fatto di citazioni, che chiedeva a Eco di confermare o illustrare. A un certo punto Obrist gli chiese di fare una connessione astratta tra neurologia e letteratura, mi pare, ed Eco rispose che con il tempo e il denaro adeguato gli avrebbe fatto una connessione tra sua nonna e qualsiasi cosa. Ma tutto in punta di ironia, perché si vedeva comunque che Eco si divertiva a sfruttare l’occasione dell’intervista per dire cose importanti. Il vero problema tra Obrist e Eco, mi sembra, è che Obrist tendeva alla complicazione dei concetti, a dimostrare la sua cultura, peraltro indiscussa, in modo “pesante”; Eco, invece, era tutto il contrario. Mentre giravamo ero ammirato dal suo modo di esprimere cose profonde e complesse con estrema chiarezza. E con una serie di battute che sembravano scritte da uno sceneggiatore. Credo che alla fine sia stato questo a non convincere Obrist: il mio lavoro è come un film e i personaggi venivano fuori nella loro natura.
Che cosa successe, quindi?
V. T. La mia idea era molto chiara, io non volevo un documentario ma una videoinstallazione. Avevo infatti raccomandato a Ferrario di compiere un’operazione totalmente libera, partendo dai materiali dell’intervista. Nella prima stesura, poiché il tema del Padiglione Italia era la reinvenzione della memoria, lui montò l’intervista di Obrist a Eco con una serie di materiali d’archivio e contemporanei che evocassero quanto affermato da Eco.
D. F. Da parte mia, ero contento della libertà datami da Trione. Ma la libertà espressiva ha senso solo se metti dei paletti, se usi un codice. Quindi chiesi a Trione se gli andava bene che, più che un’intervista, il lavoro fosse una conversazione filmata, un pezzo di cinema sotto forma di dialogo – in cui la mano dell’autore si sentisse attraverso il montaggio e con l’utilizzo di un commento visivo fatto di materiale d’archivio, che lavorasse però in “controtempo” rispetto alle parole. E poi pensai anche che un lavoro sulla memoria, cioè sul passato, dovesse essere in bianco e nero, perché avrebbe reso tutto più consono all’idea di archivio, complementare alla biblioteca citata così spesso da Eco.
Quale fu la reazione di Obrist?
V. T. Quando Obrist vide il risultato, non si riconobbe, commentando che si trattava di un lavoro troppo bello, mentre a lui sarebbe piaciuto un lavoro più “sporco”, più imperfetto.
D. F. Quando Trione me lo disse, fui sorpreso. Andai a guardarmi in rete altre sue interviste con artisti per capire quale fosse il suo concetto di “sporco”, ma sostanzialmente si trattava di semplici riprese televisive. Come ho detto, penso che il problema di Obrist fosse un altro.
Come decideste di muovervi, a quel punto?
V. T. I tempi erano strettissimi. Decidemmo di cancellare completamente Obrist dall’installazione. Il dialogo sarebbe rimasto sul catalogo, come poi avvenne, ma dovevamo fare in modo che non ci fosse più traccia di Obrist. Ferrario ricorse allora allo stratagemma dei capitoli, che coincidono con il taglio della presenza di Obrist. Resta solo un minimo dettaglio nella versione definitiva, un piede di Obrist, che si intravvede in uno dei tre filmati.
D. F. Trione era molto preoccupato a quel punto. Io no. Da regista so che il montaggio ha una forza straordinaria; e far sparire un personaggio da una scena non è così complicato. La storia del cinema è piena di personaggi perduti. Così eliminai Obrist, dando la scena totalmente a Eco – come se non rispondesse a delle domande, ma ci intrattenesse nel suo salotto – allo stesso tempo, però, costruendo un ritmo del suo discorso, spezzandolo con le scritte e i frammenti d’archivio, perché non risultasse monotono.
E la reazione di Eco quale fu?
V. T. Prima di presentare questa versione in Biennale, ovviamente mostrai il video a Eco. Lui non rispose per quindici giorni e sia io sia Ferrario eravamo convinti che il giudizio fosse molto negativo. In realtà poi il suo commento fu: “Si capisce che non è un documentario di uno studioso di semiotica, ma mi è piaciuto molto”. L’ultima volta che ho visto Eco è stata all’inaugurazione della Milanesiana l’anno scorso, a giugno, e lui era molto felice dei tantissimi segnali di apprezzamento ricevuti rispetto all’installazione in Biennale. A me, invece, ha colpito il fatto che, nel padiglione, soprattutto gli stranieri si fermassero in coda a guardare la videoinstallazione. Il mio rammarico è non averla potuta vedere insieme a Eco.
D. F. Il fatto che la gente si fermasse a vedere tutto il lavoro, lungo più di quindici minuti, ha colpito anche me. Io avevo pensato che, come capita spesso alle mostre, il pubblico guardasse il video per pochi minuti e poi andasse oltre. Il mio montaggio prevedeva anche questa visione “puntuale”: bastava un minuto per capire il personaggio Eco e il profilo del suo intervento. Invece quello che dice (e, tutto sommato, anche la qualità del lavoro) spingevano la gente a restare lì impalata per tutto il tempo.
Obrist come prese l’evoluzione del progetto?
V. T. Quando ha visto la versione finale ha detto che a quel punto si trattava di un film, non più di un’intervista. Adesso mi ha richiamato proponendomi di portare nei musei la prima versione del lavoro fatto con Ferrario. Dovremo parlarne anche con lui. Anche perché è una versione che nessuno ha mai visto. È inedita. Non è detto che prima o poi non venga fuori.
D. F. Io, come autore di cinema, non penso che esista una versione “definitiva” di un film. Così come non esiste un senso “definitivo” della vita. Se Obrist è interessato a far circolare anche la versione con lui, non ho nessun problema.
A fronte della scomparsa di Eco, e al di là della proposta di Obrist, avete in mente di dare nuova visibilità al lavoro?
V. T. Non ancora, ma non nascondo che sarebbe mia intenzione parlarne con l’editore di Eco, La Nave di Teseo, per capire se hanno voglia di farne anche un DVD, poiché quel lavoro meriterebbe di essere raccontato. Anche perché, senza volerlo, è diventato l’addio di Eco alla vita. Contiene molte riflessioni sul rapporto tra la vita e la morte, quindi non escludo che questo progetto possa avere una nuova evoluzione.
Com’è stato relazionarsi, da regista, con Umberto Eco?
D. F. Con me Eco è sempre stato disponibilissimo, aveva un suo modo di valutare le persone. Cominciò a buttare lì dei suggerimenti su come fare le inquadrature, come se il regista fosse lui. Intuii che mi stava “misurando”. E ho l’immodestia di pensare che, dopo un po’, capì di potersi fidare. Come per la scena finale di lui che cammina nella sua biblioteca, dove – da un punto di vista pratico – gli ho chiesto di “fare la valletta”, cioè camminare tortuosamente tra gli scaffali, fingendo di andare a prendere un libro. Avrebbe anche potuto dirmi di no, e lo avrei capito, perché è pura finzione. Invece quella camminata tra i libri è una bellissima sequenza: e oggi, dopo la sua morte, assume una forza quasi simbolica.
Arianna Testino
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