Guida artistica al Cimitero del Verano. Arte eterna
Il Cimitero Monumentale del Verano di Roma è un luogo estremamente affascinante anche se lo si guarda con gli occhi dell’appassionato d’arte. Qui vi proponiamo una rivisitazione contemporanea del concetto di “luogo”, fra storia dell’arte e antropologia culturale. Avviando una ricognizione su alcuni cimiteri monumentali italiani ed esteri. Come il Cimitero di Staglieno a Genova, il Monumentale di Milano e il famoso Père-Lachaise parigino.
Dovremmo aver coscienza che abitiamo in un immenso cimitero.
(Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, 1966
PROLOGO: IL CIMITERO DI ALMODÓVAR
È il principio della pellicola di Pedro Almodóvar, Volver (2006), ambientato a Castilla-La Mancha, che sintetizza visivamente quanto accadeva in passato e succede ancora oggi presso i cimiteri.
In un vorticoso vento, le donne ripuliscono e lucidano le tombe e le lapidi dei cari estinti; agitate e convulse, quasi che quella domesticità e quell’accettazione pacata della morte rientri anche e soprattutto nelle operazioni della quotidianità casalinga, in una forma primitiva d’interazione tra il mondo dei defunti e il nostro. Un vento impetuoso che sconvolge simbolicamente e trascina con sé i ricordi dei vivi ancorati alle memorie delle anime trapassate.
Forse questo vento che tutto dissipa, messo in scena poeticamente da Almodóvar, non è altro che quel silenzio tipico che caratterizza l’alterità di questi luoghi.
CINTE MURARIE E FIORAI CINEMATOGRAFICI
Anche nel Cimitero Monumentale del Verano di Roma è possibile percepire questa quiete trascendentale e incontrare in questo museo all’aperto uomini e donne che si affrettano a pulire le lapidi e le sculture di famiglia.
Percorrendo la via Tiburtina, che dall’omonima stazione conduce presso il piazzale del Verano, già si scorge uno spazio metafisico che si divide dalla caoticità cittadina. È una città nella città, separata però da una cinta muraria altissima, quasi a volersi staccare espressamente dal suolo profano in cui si staglia.
Proprio su questa sezione della via Tiburtina si possono osservare le antiche pompe funebri, i marmisti ancora oggi in funzione e i vecchi banchi di fiori, in passato oggetto di attenzione da parte del cinema e della fotografia, che dal Neorealismo si riverberò fino alla fine degli Anni Settanta. Ritorna alla memoria il celebre film del 1970 diretto da Ettore Scola, Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca), dove Monica Vitti interpretava una fioraia romana che aveva il banco dei fiori davanti l’ingresso del Verano.
IL VARCO VERSO UNO SPAZIO ALTRO
Il percorso ha inizio varcando l’imponente ingresso monumentale, dove poste sui podi della soglia vi sono quattro maestose figure femminili in marmo, guardiane attente e severe che rappresentano il Silenzio di Giuseppe Blasetti, la Preghiera e la Meditazione di Francesco Fabi Altini e infine la Speranza di Stefano Galletti – tutte opere databili tra 1878 e il 1887.
Valicando l’entrata, il visitatore percepisce subito uno spazio-altro, una geografia sacra e perturbante in cui tutto è ribaltato: ogni singola superficie e ogni articolata struttura architettonica è in funzione della morte. La normale e specifica attribuzione di dare un senso a ciò che si osserva, in un luogo alterato come il Verano viene messo in discussione. Una dimensione magica, uno spazio simbolico in cui l’occhio si perde in immagini e fotografie anonime che raccontano di vite che un tempo furono, ora abbandonate all’oblio e alla dimenticanza.
Dall’entrata, subito davanti, con lo sguardo si scorge il quadriportico, edificato nella sua parte più antica da Virginio Vespignani: fra le tombe più intense vi è quella di Emilia Filonardi Lombardi, morta di tisi. Il marito Giovanni Battista Lombardi, scolpì nel 1875 questo intensissimo ritratto tipico dell’élite verista: la scena rappresenta la giovane donna malata seduta in veste da camera che abbraccia per l’ultima volta suo figlio; tema, questo, che è presente anche pittoricamente in un opera biografica di Edvard Munch, La fanciulla malata, dove una madre consola la figlia al capezzale.
ANGELI DEL DOLORE
Fra le tante, si incontra la tomba di Primo Zonca, realizzata dallo scultore Giulio Monteverde. La struttura del monumento è costituita da un’alta base su cui è posto un sarcofago scanalato con l’immagine di profilo del defunto, sormontata dalla statua di una musa letteraria che, con un libro aperto, volge lo sguardo verso l’infinito.
È uno dei tantissimi “angeli del dolore” presenti nel cimitero, metamorfosi tardo ottocentesca della precedente iconografia dell’angelo del Giudizio. Questi ambigui e dolenti simulacri, sensuali nelle pose, nella resa pittorica e plastica dell’anatomia, si relazionano alle figure femminili – ora glaciali e tormentate, ora languide e carnali – del Simbolismo ottocentesco (per chi volesse approfondire, una importante rassegna su Il Simbolismo è allestita al Palazzo Reale di Milano fino al 5 giugno).
ANGELI DELLA SOFFERENZA
Oltrepassando il quadriportico, accedendo ai reparti più remoti si scopre quasi fascinosamente come si affastellino – a volte prepotentemente, a volte solitariamente – schiere di figure dolorose di produzione talora anonima: sono gli angeli della sofferenza. Sculture che si ispirano a La Malinconia I di Dürer, qui però congelate e fissate nella loro precarietà, sintetizzando le movenze più complesse del sentire dell’uomo contemporaneo. Angeli, quelli che popolano il Verano, impossibilitati a spiccare il volo, intrappolati e ingabbiati in spazi allucinatori che si ripercuotono in un eternità ciclica. Un “teatro dell’immaginario” tardo ottocentesco, in cui i simulacri perpetuano metaforicamente il lutto. Immagini che, nella loro staticità emotiva, evocano un pathos profondo e protetto.
Il camposanto diviene così per il viandante contemporaneo un luogo ricco di spunti e riflessioni: uno spazio in cui potersi abituare all’idea che tutto ha un termine e un ciclo designato, e sta all’uomo e alla propria società proteggere, conservare e tutelare i beni che ne sono conservati.
Fabio Petrelli
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