Il tema del lavoro è centrale in quasi tutti i libri che ho scritto, ma di questo mi sono accorto strada facendo, prendendone coscienza molto più tardi. Il racconto d’apertura della raccolta Norvegia, un libro del 1993, che si intitolava Collocamento, in assoluto il primo che ho scritto, raccontava un viaggio a Roma fatto da un ragazzo da poco uscito dall’esperienza politica degli Anni Settanta, che si recava nella capitale per un colloquio in una grande azienda. Nel secondo, il romanzo a cornice Attenti al cane, un libro sulla fine della provincia, il lavoro del postino, che è quello del protagonista-narratore, diventa un grimaldello sociologico, e al tempo stesso un osservatorio privilegiato sulla condizione umana; mentre in Nafta è un camionista che ripercorre in un viaggio esistenziale in tir tutta la curva esistenziale della sua vita.
Solo più tardi, scoperto il reportage narrativo, al quale mi sono dedicato con passione negli ultimi dieci anni, attraverso molte storie pubblicate su riviste e giornali (prima Diario, poi il Manifesto e Rassegna) ho continuato a raccontare sul campo alcune contraddizioni e trasformazioni in atto guardandole dentro le dinamiche del lavoro di oggi. Innanzitutto, stiamo parlando del 2003, quando scrissi Camera del lavoro per l’antologia di Rizzoli Patrie impure, perché era un tema assolutamente rimosso, a parte qualche rara eccezione, come il bellissimo La dismissione di Ermanno Rea uscito l’anno prima, non solo dalla letteratura, ma dall’informazione tutta, cosa che era iniziata a metà degli Anni Ottanta nel compiersi di una sostituzione nell’immaginario, cancellando il lavoro vivo e mettendo al centro della narrazione sociale l’epica del management e del denaro. Per me raccontare questa parte rimossa ha quindi corrisposto anche a quello che Orwell chiamava “scopo politico”: “Il desiderio di spingere il mondo in una certa direzione, di modificare l’altrui concezione del tipo di società alla quale bisogna tendere”.
Questo è successo anche ne Le risorse umane (Feltrinelli 2006), un viaggio nell’Italia dei lavori, dove ho raccontato, tra le altre, le storie degli operai morti per amianto ai cantieri di Monfalcone, i cinesi di Prato, persino un suonatore di tromba mobbizzato nell’orchestra dell’Arena di Verona, e, soprattutto, con maggiore consapevolezza di sguardo, ne Il costo della vita (Einaudi 2013) dove, pur raccontando la “storia di una tragedia operaia”, per numero di vittime e impatto emotivo seconda solo a quella della miniera di Ribolla, che pure diede vita a un classico tra saggismo e narrativa, I minatori della Maremma di Carlo Cassola e Luciano Bianciardi, credo di aver raccontato l’Italia in un momento di passaggio epocale molto brusco, quello della metà degli Anni Ottanta. In quel periodo, osservato nel porto di Ravenna, proprio perché cuore della Romagna rossa e del Pci, ma anche del più forte sindacalismo di sinistra, quindi luogo assolutamente civile dell’Italia e punta dell’iceberg, cominciano a declinare i valori del movimento operaio e ad affermarsi un nuovo tipo di capitalismo (poi definito neo-liberismo) aggressivo e vincente, col suo immaginario da noi plasmato dalle televisioni di Berlusconi, che non a caso facevano la loro comparsa proprio in quegli anni. Naturalmente non mi sono solo limitato a ricostruire una memoria del passato con rigore realista, e stile ossessivamente fedele al vero nel ricomporre il giorno di quella tragedia in una sorta di racconto corale, ma ho voluto legarla al presente attraverso i fatti, gli avvenimenti che si sono succeduti in quel porto negli ultimi venticinque anni, che credo sia un elemento di confronto che possa essere utile, attraverso il racconto, a capire come sono peggiorate le condizioni dei lavoratori nel nostro Paese, come siano cresciuti precarietà, lavoro nero, caporalato e, di conseguenza, come è peggiorata la democrazia.
Considero il mio un lavoro di indagine intellettuale ma anche corporale, fatto attraverso il setaccio dei sensi, soprattutto in tutti quei racconti d’empatia che sono la parte più sensibile dei miei libri, quel fuoco, o l’arte dell’avvicinamento, come la chiama il grande fotografo che ha illustrato Il costo della vita, Mario Dondero, uno dei grandi maestri del fotogiornalismo, che non è tanto per me solo un lavoro mirato al risultato estetico, o a una carriera, quella dello scrittore, ma una esperienza vera e propria della vita, dove fare reportage diventa un collante delle relazioni umane, un modo particolare di stare al mondo: da “osservatori militanti”, come scriveva Romano Bilenchi.
Angelo Ferracuti
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #29
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