Sul XXI secolo (VI). Cultura e conflitto
Da anni ormai, si usa la cultura per formare “cittadini perfetti”. E così ci siamo scordati che il ruolo della cultura è proprio quello di far esplodere le contraddizioni, di articolare un disagio e una critica. Su questa contraddizione riflette questa nuova puntata di Inpratica.
A cavallo tra il secolo scorso e quello attuale, la cultura sta subendo una mutazione fondamentale nel suo ruolo, nella sua funzione e nella sua struttura; è un fenomeno che può essere verificato in Italia e nell’intero Occidente. Ad essa sempre più – da un trentennio circa a questa parte – si richiede la conferma di ciò che già sappiamo (o che presumiamo di sapere), di ciò che ci è stato inculcato una volta per tutte; si richiede il conformismo, la pacificazione, l’adeguamento. Come affermano orgogliose oggi persino le riviste di business & management: “Per essere accettati dagli altri, fate finta di essere felici”.
Nelle retoriche più recenti, sia quelle apertamente neoliberiste sia quelle (apparentemente) liberali, che si ergono a difesa dei cari-vecchi-valori, la cultura assume il ruolo di formare i “cittadini perfetti”: nulla di più falso, se si scava appena sotto la superficie, dal momento che il ruolo della cultura è proprio quello di far esplodere le contraddizioni, di articolare un disagio e una critica, di narrare la ferita e il trauma – inteso esattamente come ferita che torna a riaprirsi, qualcosa che fa male e che continua a far male.
Finora, non sono riuscito a trovare espressione più brillante e precisa di questo concetto di quella offerta da Harold Bloom ne Il canone occidentale: “I massimi scrittori dell’Occidente sono sovversivi di tutti i valori, i nostri e i loro propri. […] Se leggiamo il Canone Occidentale per plasmare i nostri valori morali, sociali, politici o personali, credo proprio che diverremo mostri di egoismo e sfruttamento. Leggere al servizio di qualsivoglia ideologia, a mio parere significa non leggere affatto. La percezione di possanza estetica ci dà modo di imparare a parlare con noi stessi e a sopportare noi stessi. Il vero uso di Shakespeare e di Cervantes, di Omero e di Dante, di Chaucer o di Rabelais, consiste nell’aumentare la propria crescente interiorità. Leggere in profondità nell’ambito del Canone non farà di te una persona migliore o peggiore, un cittadino più utile o più dannoso. Il dialogo della mente con se stessa non è innanzitutto una realtà sociale. Tutto ciò che il Canone Occidentale può apportare, consiste nell’adeguato uso della propria solitudine, quella solitudine la cui forma conclusiva è il proprio confronto con la propria mortalità”.
Il discorso, che riguarda gli scrittori principali degli ultimi sette secoli, è valido anche naturalmente per gli artisti visivi. L’arte e la cultura ci mettono di fronte alla nostra condizione mortale, rendendocela interpretabile e comprensibile; rendono possibile, instaurano e costruiscono “il dialogo della mente con se stessa”. Sono, in definitiva, questo dialogo. Da un certo punto in poi, invece – un punto che andrà studiato e ristudiato, analizzato, indagato – è scattato l’equivoco che ha dato la stura a tutti gli altri equivoci: alla cultura si richiede qualcosa che non le compete. Possiamo chiamarlo corsa al profitto, decorazione, coltivazione del consenso, gentrificazione dell’immateriale ecc.: l’aspetto importante è che in tutto ciò gradualmente scompare, recede l’umano.
Arte e cultura salvaguardano – sempre meno, sempre peggio – la sana quota di ribellione, di opposizione, di non-mi-sta-bene. Di non accettazione delle condizioni, del recinto normativo, delle regole date e consegnate come se fossero eterne e immutabili. Non si può pacificare tutto, comporre tutto (al contrario di quello che afferma ostinatamente e pervicacemente la grande illusione corrente): il conflitto culturale è la vita.
La simulazione di vita è la morte (al massimo, se proprio vogliamo e ci teniamo, una non-morte).
L’opposizione radicale e l’elaborazione di altri modelli di esistenza è il compito della cultura. Non c’è contraddizione con la riflessione di Bloom, perché è “il proprio confronto con la propria mortalità” a contribuire a questa elaborazione, a incarnare un intero modello di esistenza. Questo confronto è infatti totalmente incoerente con gli schemi mentali, operativi, interpretativi che regolano la società attuale, persino con il sistema di valori complessivo che regola scelte e comportamenti: è del tutto incompatibile e incommensurabile con essi (abbastanza alieno, se ci pensiamo, in base agli – stupidissimi – standard in voga). Dunque, la dimensione di un “adeguato uso della propria solitudine” – l’aumento della propria crescente interiorità – nella sua completa e assoluta inattualità possiede una enorme carica di nuovo e di inedito. È uno dei fattori cioè in grado di modellare il tempo che viene, il XXI secolo; di alterare in profondità l’esistenza di ciascuno di noi, dilatandola e approfondendola in misura incredibile, parlando non di ciò che l’arte e la cultura dovrebbero fare su un livello totalmente ipotetico, e sganciato dalla realtà, vacuo perché prodotto dalla medesima dissociazione che presume di curare, ma di come esse funzionano effettivamente in ogni tempo e in ogni luogo.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #30
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