Erwin Olaf va in cantina. Per Ruinart
Prima arrivano gli occhi. Erwin Olaf ha gli occhi di un azzurro glaciale, penetranti e riflettenti: unici. Richiamano alla mente quelli di Giuseppe Penone nella sua celebre opera “Rovesciare i propri occhi”. Da dietro quelle pupille osserva il mondo della moda, dei marchi del lusso e dell'arte, campo nel quale si è affermato come un maestro assoluto nel giro di due decenni di fotografie. Con lui Ruinart, maison di champagne più antica al mondo, celebra 120 anni di collaborazioni con gli artisti (il primo su Mucha nel 1896) e lo invita a ritrarre le sue cantine riconosciute nel 2015 Patrimonio mondiale UNESCO.
Icona della fotografia in stile vintage, Erwin Olaf (Hilversum, 1959) è un creatore di scene caravaggesche sospese fra eros e thanatos. La mostra allestita nella vip lounge Ruinart di miart (qui trovate tutti i nostri articoli dedicati alla fiera milanese che si è tenuta lo scorso weekend) è però qualcosa di diverso da ciò a cui l’olandese ci ha abituati.
Le fotografie scattate a Reims sono il ritratto di una forma d’arte atavica e, come dimostra la serie, ancora in auge: si tratta del graffito, dell’incisione murale che rappresenta un istinto ancestrale di cui ancora poco sappiamo, seppur ne subiamo la fascinazione. Sono scatti in bianco e nero che non ritraggono personaggi, non alludono a narrazioni, non ricreano ambienti. Colgono con semplicità e incisività l’essenza di un backstage che per quasi tre secoli ha accolto e protetto non soltanto lo champagne, ma tutta una serie di dettagli minimi dell’esistenza che trasformano i muri delle cantine in opere d’arte “viventi”.
Quello di Olaf è un lavoro che ci si aspetterebbe da un Werner Herzog o da un Brassaï, la cui serie sui graffiti parigini è stata d’ispirazione. Anche David Lynch, con il quale l’Olaf abituale vanta punti di contatto, ha ritratto con radicalità alcune cantine, ma si tratta di un altro genere di sottosuolo, da Lynch tradotto in metafora spietata di quella morbosità del perturbante e dell’ignoto che alberga in ciascuno di noi.
La mostra di Olaf sarà esposta per tutto il 2016 in trenta fiere d’arte nel mondo, tra cui anche Art Basel e Paris Photo, a cui Ruinart partecipa da tempo in quanto marchio amico dell’arte.
Questa tua mostra mi sorprende, per il coraggio e la distanza dalla tua cifra stilistica. Fare arte su commissione è un’ardua impresa.
Dovevo pensare a come rendere la storia delle cantine Ruinart. Quando faccio la mia fotografia penso all’arte, ma quando altri mi chiedono un progetto, magari le aziende, è molto difficile creare vera arte.
Hai portato nelle cantine Ruinart i tuoi modelli, ma poi li hai mandati via. Che cosa hai visto?
Due anni fa mi dissero: “Dovresti fare qualcosa con la nostra storia”. Siccome faccio stage photography, ho pensato che volessero da me quel mio tipo di lavoro. Ma sinceramente credevo che ne sarebbe risultata una cosa kitsch.
Perché?
La fotografia è lo strumento della pubblicità. Si usa per ritrarre donne bellissime che sorridono e ti dicono: “Compra il mio prodotto”. Non volevo nulla del genere.
Però infine, andando contro il tuo stile, hai trovato uno sguardo indipendente, una visione artistica che offre il senso profondo del luogo senza celebrarlo in modo pubblicitario.
Sono stato diverse volte nelle cantine Ruinart, con persone che mi davano spunti sui contenuti che avremmo dovuto comunicare. Poi ci sono stato in solitudine per pulire la mente e così ho iniziato a vedere quel che appariva sui muri: piccoli disegni, firme, tracce di natura, crepe e molto altro. I muri possono apparire qualcosa di banale ma se hanno secoli di storia è diverso.
Hai avuto una rivelazione, sembra.
Ho fatto delle fotografie e ciascuna di esse risultava diversa. Mi ricordavano un artista o uno stile dell’arte contemporanea. Quei muri per me sono diventati come un percorso nella storia dell’arte di oggi. Prendi ad esempio questi fondi di bottiglia in serie: potrebbero apparire come un lavoro del Gruppo Zero; questo potrebbe essere un Serra, quello un Rothko, questa una foto di Brassaï, quei tondi nel muro mi fanno pensare agli Spot Paintings di Damien Hirst… Ho giocato a modo mio con il mondo dell’arte.
Sono fotografie che appaiono semplici rispetto al tuo lavoro abituale. Come le hai realizzate?
Con una macchina, un assistente e una lampada: mi serviva solo tirar fuori le ombre e i contrasti per dar loro consistenza, come fossero dipinti. In genere, penso le mie fotografie come dipinti. Ho sempre invidiato i pittori, perché possono creare emozione anche attraverso la texture del dipinto. Per me è importante, ricerco la stessa tattilità.
Questa serie è poetica, le immagini sembrano la traduzione visiva delle poesie ermetiche di Quasimodo o di Montale. Ritraggono i dati minimi di una massa di esistenze che hanno attraversato questi luoghi in modo anonimo, ma lasciando segni da interpretare.
Mi affascina moltissimo quel che hanno fatto questi uomini o donne. Mi chiedo cosa li abbia portati a lasciare segni, a volte così artistici, della loro presenza. C’è una piccola testa che è stata scolpita dentro una fessura nella roccia profonda un metro e alta due metri. Chi lo ha fatto e perché?
Espressioni d’arte naïf anonima destinata a restare tale.
Non ci sono nomi eppure ci sono centinaia di graffiti sui muri che ho voluto combinare con le immagini delle tracce lasciate dalla natura e dall’industria nello svolgimento del suo operato, che crea a suo modo opere d’arte involontarie. Mostrare soltanto l’arte murale e i graffiti mi sembrava limitante.
Sei un fotografo cross-over tra fashion e fine art, tanto che hai curato l’allestimento di una mostra che il Rijksmueum dedica alla propria collezione di moda. Come riesci a gestire i due ambiti?
Ho sempre avuto una filosofia: tenere un terzo dei miei guadagni per finanziare i miei progetti artistici, in modo che nessuno potesse influenzare la mia indipendenza. Ha funzionato. L’indipendenza da tutto e da tutti è molto importante, ti permette di esprimere liberamente le emozioni. L’arte è la mia auto-terapia.
Anche questa mostra per Ruinart appare indipendente.
Perché è stata una scoperta. Fino alla fine non sapevo che fare, non volevo ripetere me stesso. Un giorno vado al Victoria and Albert Museum di Londra per vedere la mostra di Alexander McQueen: stavo cercando idee per l’installazione da fare al Rijksmuseum. Avendo tempo, mi sono fermato per vedere alcune fotografie di Brassaï della serie Graffiti, scattate a Parigi negli Anni Quaranta.
Al principio mi sono irritato, perché un altro aveva già avuto l’idea, ma poi ho pensato: è un artista così grande che posso trarre ispirazione da lui. Non si può pretendere d’inventare sempre qualcosa di totalmente nuovo. Così ho ereditato la visione e l’ho adattata alla mia sensibilità.
Un altro tuo tema caratteristico, che scompare nella mostra di Ruinart, è il corpo. Cosa rappresenta per te?
Per me è una fonte inesauribile d’ispirazione.
Una frase che avrebbe potuto dire Fidia così come Michelangelo, Lucian Freud o Mapplethorpe. Cosa ti ispira di un corpo?
La pelle: ogni pelle ha una luce propria. La pelle umana è un elemento unico; nessun animale, forse tranne qualche gatto molto particolare, possiede una pelle così adatta a essere fotografata. Può riflettere la luce come una scultura. Ciò per me è fonte d’ispirazione.
Per questo spesso hai usato corpi nudi: bellissimi e sinistri.
Spesso lavoro con corpi precoci, prematuri. Lavorandoci mi sono accorto anche di come gli esseri umani cambino. Nel 1991, quando iniziai, i corpi erano diversi da oggi. Quando erano grassi, non lo erano in modo così abnorme come ora, solo per fare un esempio.
Hai da poco dedicato una nuova serie al nudo, Skin Deep.
L’ho presentata in una galleria londinese e presto sarà a Berlino. È un mio omaggio al corpo umano come fonte di tutta l’arte occidentale. Qui in Italia ho guardato molte statue antiche: sono bellissime. Anche per questo il caso della copertura delle statue durante la visita del presidente iraniano Rohani mi ha colpito e fatto arrabbiare.
Ha centrato il bersaglio della tua sensibilità.
Ma sono soltanto corpi! Tutti noi conosciamo il nostro corpo, sappiamo com’è fatto, anche nelle sue parti genitali. Non capisco dove stia il problema. La sessualità e la sensualità, poi, sono cose fantastiche, che è bello avere nella nostra vita.
Mi sembra un punto di vista molto occidentale.
In effetti mi sento molto europeo, non volo dappertutto. Da qualche giorno in Italia, sto iniziando un progetto di scultura.
Sarebbe il tuo primo.
Sì, una statua in legno prodotta in Sud Tirolo che esporrò a Berlino, perché vorrei creare un’opera che sia una dichiarazione politica.
Hai scelto la scultura perché la fotografia ti sta stretta, ormai?
No, ma credo che ciò sia un esito del mio approfondire la fotografia come forma d’arte. Mi piace cercare nuovi modi per ricreare ambienti che possano coinvolgere il pubblico su più livelli e che possano combinare la fotografia, il video, la scultura, la luce, il suono. Voglio creare qualcosa che sia più di una semplicemente una mostra fotografica.
Come se lo stage che normalmente fotografi uscisse dalle tue immagini per farsi spazio reale?
Arrivato a questo punto della mia carriera, posso continuare la fotografia vecchio stampo, in forma artigianale se vuoi, oppure ripensarla come un grande ambiente. Ma perché non fare tutte e due le cose?
Nicola Davide Angerame
www.erwinolaf.com
www.ruinart.com
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