Tate Modern 2. Countdown per l’inaugurazione
Sfida agli spazi ristretti, alla paura dei costi e all’autorità di un punto di vista, quello occidentale. Nel nuovo millennio, l’arte è fluida nei generi e aperta al diverso. È questa la Tate Modern 2. E se incontrarla spaventa, Jacques Herzog promette: sarà un’esperienza.
DA SCOTT A HERZOG & DE MEURON
260 milioni di sterline e otto anni tra progetto e realizzazione: l’ampliamento della Tate Modern comprende le tre cisterne (aperte temporaneamente, nel 2012, durante le Olimpiadi) e un edificio: la Switch House, a forma piramidale, ricoperto da un merletto di mattoni rossi. “Not a cool material nowadays”, riflette Jacques Herzog, dello studio Herzog & de Meuron a cui era stata a suo tempo affidata anche la trasformazione della centrale elettrica – costruita tra il 1947 e il 1960 da Sir Giles Gilbert Scott – nel museo d’arte moderna e contemporanea che tutti conosciamo: la Tate Modern.
“The most spectacular loft conversion”: fu uno dei commenti all’inaugurazione nel 2000 per la straordinaria rifunzionalizzazione degli spazi interni, che lasciava l’esterno inalterato (mattoni rossi inclusi). Con l’aggiunta della Switch House, il fermento di commenti promette di ripetersi, perché, nonostante nasca ex novo, questa Tate Modern si ripropone in mattoni, rendendoli elemento di continuità con il passato e prova di un legame chiaro a chiunque guardi il complesso da lontano. Almeno quanto l’impressione – sempre a colpo d’occhio – che la Tate sia un insieme ben diverso dai palazzi circostanti. Una solidità antica come le piramidi e attuale come una base spaziale.
UN’ESPERIENZA DA VIVERE
“Why this form”, domandava retoricamente Herzog, “which is something between a rational form and a very irrational one?”, anticipando in un’intervista del 2008 le perplessità all’apertura ufficiale, programmata per il 17 giugno 2016. “It is to do with the geometries of the land parcel”, spiega.
Le geometrie del lotto intorno, quindi, ma anche la volontà di creare una struttura che dia un senso di movimento, invitando e accogliendo non solo per guardare arte, ma per farne parte. “The idea is that walking and moving through the gallery is in itself an interesting experience”.
RIALLESTIRE UNA COLLEZIONE
Dieci piani extra e il 60% di spazio in più per performance, video, sound art e installazioni. Non sorprende che, nel disegno generale del ri-allestimento di una collezione che, in un quarto di secolo, si è arricchita di testimonianze provenienti da Asia, India, Sudamerica e Africa, le “vecchie” sezioni siano cambiate.
Delle quattro a cui ci si era abituati – Poetry & Dream, Material Gestures, Structure & Clarity e Making Traces – solo quest’ultima resta inalterata (ma solo fino al 23 maggio). Le altre, pur rimanendo fedeli al principio delle giustapposizioni e all’ordine tematico (preferito al cronologico), si spostano verso il contemporaneo e valorizzano produzioni fino ad ora marginali. Quella fotografica, l’arte non occidentale, e soprattutto quella femminile.
COSA CAMBIA E COSA RESTA
Poetry & Dream, ribattezzata Citizens & States, apre con il consueto dialogo tra artisti, che però questa volta sono una donna (Barbara Hepworth con Figure, 1959-60) e un uomo (Philip Guston con Monument, 1976).
Allo stesso modo, Media Networks, che sostituisce Energy & Process, mette a confronto le Guerrilla Girls con Andy Warhol. L’appropriazione della celebre Odalisca di Ingres, con il suo corpo a metà tra cigno e serpente, lunare e come disossato, che si adagia su un letto di cuscini, e invece di ammiccare a chi la guarda, volta la faccia, nascosta da una maschera da gorilla, verso le statistiche sulla “vergognosa” condizione femminile nel mondo dell’arte. Do Women Have To Be Naked To Get Into the Met. Museum? (1989), gridano le Guerrilla Girls in faccia al Marilyn Diptych (1962) di Warhol.
Proseguendo, Material Worlds (un tempo Clarity & Structure), rassegna sulle sperimentazioni di genere, presenta un Senza titolo del 1966 di Marisa Merz in coppia con Splash Ink II, una delle tappezzerie fatte con i tappi di bottiglia di El Anatsui. Circa quarant’anni di distanza tra le opere, culture completamente diverse alle spalle, e diverse le motivazioni: quella di Merz, intimista e domestica; quella di El Anatsui, politica e sociale. Eppure quanti punti in comune, tra i quali forse il più pertinente è la sfida contro i limiti dei materiali, contro le convenzioni espositive e uno sguardo ironico verso i pregiudizi, anche quelli interni, fra artisti.
IRONIE CONCETTUALI
L’ironia abbonda nel Concettuale che, tra i linguaggi nati nel XX secolo, sembra quello più attuale, il che giustifica la scelta di dare a Fontaine di Marcel Duchamp (replica autorizzata dall’artista nel ‘64 su richiesta del gallerista italiano Arturo Schwarz) un’intera sala che si affaccia sulla Turbine Hall e che contempla dall’interno del suo piccolo, meritato “gabinetto”, le vetrate della Switch House.
Come a voler dire: quante cose, quanto tempo dal 1917 a oggi. Tante, se, a distanza di un secolo, la scelta della giuria di colleghi di Duchamp, gli “Independent Artists,” di lasciare l’opera dietro una tenda, nel magazzino, perché volgare e provocatoria – e poi: che qualità artistica poteva mai avere un orinatoio capovolto su un piedistallo? – viene mostrata per quello che è stata, ovvero un piccolo fiasco. La caduta nel gioco più ironico di Duchamp che, nel mettere alla prova gli “artisti indipendenti”, mette in guardia su ogni avanguardia portando Fontaine dal buio di un magazzino al centro di una sala che si affaccia sul futuro.
Maria Pia Masella
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