Mid-career alla riscossa. Baldo Diodato
“L’arte progetta il passato”: l’assunto di Achille Bonito Oliva, tra l’altro suo compagno di strada da mezzo secolo e oltre, ben sintetizza l’indagine di Baldo Diodato. Napoletano di nascita, romano d’adozione e con un lungo trascorso a New York, Diodato è artista errante. La sua riscossa riparte proprio da Roma, città che sta mappando da vent’anni per mezzo dei frottage.
Nel piano interrato di Palazzo Doria Pamphili a Roma – piazza del Collegio Romano – Baldo Diodato (Napoli, 1938; vive a Roma) arriva solitamente intorno alle 10.30. Percorre la breve rampa di scale, si lascia dietro qualche metro di corridoio e inizia a muoversi tra le sue stanze, in cui sono accumulate quarant’anni e oltre di stratificazioni, tra opere e ricordi. In particolare i calchi dei sanpietrini, i grandi pannelli in alluminio – dipinti e non – che stanno caratterizzando la sua ricerca da quando, circa vent’anni fa, ha fatto ritorno in Italia dopo gli oltre venticinque di vita trascorsa a New York.
L’OMAGGIO DELLA GNAM
Baldo è napoletano, delle sue radici conserva accento e ironia, nonostante il quarto di secolo oltreoceano. In questi giorni, finalmente, un museo pubblico italiano gli dedica una mostra: la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma ospita una sua antologica, curata da Achille Bonito Oliva – “il nostro rapporto è infinito, ci conosciamo da cinquant’anni”, racconta l’artista –, che fa il punto su alcuni fondamentali momenti della sua indagine, avviata negli Anni Sessanta.
SFACCIATAMENTE BAROCCO
I primi risultati maturi sono del 1966, quando a Napoli espone una serie di opere di ascendenza Pop. Grandi cornici barocche al cui interno Diodato ingloba oggetti tridimensionali di plastica. Prelevando materiali dalla vita di tutti i giorni, con un approccio da ready-made beffardo, Baldo avvia un percorso di conoscenza sulla realtà, agendo nella realtà medesima. E a ben guardare, mediante una panoramica che attraversa tutti questi decenni, rimane costante la volontà di analizzare le reliquie di differenti istanti di presente. Piatti di cartone, barattoli di plastica accostati tra loro, all’insegna di una serialità calda, e ancora fiori e oggetti vari ed eventuali: il panorama oggettuale è domestico e insieme contemporaneo. Un’aderente sintesi di tutto questo processo l’ha tracciata Lea Vergine quando ha asserito che “Diodato è un “assembleur” dei nostri giorni. Diodato è meridionale, sfacciatamente barocco, decorativo, ornamentale. Diodato è uno scenografo capace di mimare, la sagrestia, il cabaret, la vetrina dei grandi magazzini e l’altare, trasformando ironicamente tutto quanto i mass-media e il kitsch veicolano con assillo costante”.
Sempre in occasione della mostra del 1966 alla Modern Art Agency di Lucio Amelio, la Vergine ha sostenuto: “Bisogna riconoscergli quello di cui abbondantemente dispone e cioè: entusiasmo, estro, senso del gioco, ironia, meraviglia e una discreta dose di agnosticismo”. E tutto ciò permane ancora oggi alla soglia degli ottant’anni.
NEW YORK, NEW YORK
Formatosi nell’ambito del collettivo Operativo Sud 64, con Dentali, Carlini, Rubino, Gennaro, Piemontese, Patterson e ABO come teorico, Diodato è a New York dal 1966: la sua indole nomade gli consente anche di virare su altri fronti e, da quell’eccentrico volume dell’assemblaggio, devia sulla scultura essenziale, concependo un paravento con cubi scomponibili e abitabili: l’opera Due cubi, esposta nell’anno successivo da Amelio a Napoli – “Lucio è stato il primo a Napoli, si è inventato anche il collezionismo” – è minimal e al contempo processuale, anche perché intende instaurare un serrato legame con un osservatore attivo. La struttura primaria del quadrato, esile, sintetico, rivela pertanto un cambiamento. Ma non soltanto sul piano formale, bensì sul profilo mentale e quindi operativo. L’opera diventerà poi non il frutto del dialogo con lo spettatore, ma il risultato della sua medesima azione, più o meno consapevole. La metropoli lo attira e qui emerge il Diodato della maturità, mediante un’operazione scaturita dall’osservazione diretta dei passi veloci degli americani sulla strada ai piedi del suo studio del Greenwich Village. È una suggestione, che però egli condensa incanalandola nell’opera stessa. Nella J.F.K. Square di Philadelphia installa una tela di sei metri per sei: la gente ci cammina per ore e quel grande brandello diviene il registro di un momento banale e al contempo unico, perché irripetibile e corale. Nel 1972 a Pompei – in compagnia di Carlo Alfano – esegue un frottage in una fontana: la sua azione si confronta con la storia, come accadrà, con più intensità, al suo rientro definitivo in Italia.
BACK HOME: ROMA
Dalla metà degli Anni Novanta, a Roma, per dirla con Achille Bonito Oliva – come dimenticare l’installazione monumentale di qualche anno fa nel fossato del Palazzo del Principe di Muro leccese, in Salento, per il progetto Intramoenia Extrart, la cui direzione scientifica era proprio di ABO? – la sua arte progetta il passato. Il confronto con la straordinaria e millenaria storia della città lo stimola: dalla tela passa all’alluminio e avvia così una mappatura dei sanpietrini del centro storico, attraverso un processo di acquisizione di tracce, anche infinitesimali, lasciate dalle milioni di persone in transito per le vie della capitale. Da solo o in compagnia di studenti e assistenti, Diodato ha mappato – e continua a farlo – il valore della forma.
Lorenzo Madaro
Roma // fino al 29 maggio 2016
Baldo Diodato – Opere 1965-2016
a cura di Achille Bonito Oliva
GNAM
Viale delle Belle Arti 131
06 32298221
[email protected]
www.gnam.beniculturali.it
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/53055/baldo-diodato-opere-1965-2016/
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