Harlem is the new Chelsea. Ecco come sta cambiando New York
Prima c’è stato il boom di Bushwick, poi del Lower Est Side. E in questo 2016 la nuova tappa della transumanza a Manhattan si chiama Harlem. Una storia che si ripete? Per certi versi sì. Ma con una maggiore consapevolezza di quel che significa “gentrification”.
Il dollaro, si sa, non guarda in faccia nessuno e New York, come un mostro a tre teste, si è ormai plasmata alla logica del mercato, forzando e rigenerando se stessa dentro paradisi culturali nascenti di vita tanto fragile quanto intensa, che hanno reso schiavi di un’esistenza nomade artisti, collezionisti, galleristi e curatori.
Se da una parte Chelsea ha mantenuto negli ultimi dieci anni l’egemonia dell’arte commerciale per eccellenza (ad oggi si contano più di trecento gallerie), dall’altra il continuo, inesorabile aumento dei prezzi degli affitti della zona – insieme al rischio inondazioni, com’è successo con l’uragano Katrina, che ha causato milioni di dollari di danni – ha anche segnato periodiche onde di rigetto dell’industria culturale statunitense, che si è parzialmente riversata su quartieri della città apparentemente più accessibili. Ed ecco che, dopo il boom di Bushwick e del Lower Est Side, il 2016 sembra ormai ufficialmente essere l’anno dell’ascesa di Harlem. Una storia che si ripete? Può darsi. Ma con le dovute differenze.
LE MIGRAZIONE DELLE GALLERIE
La migrazione verso nord è iniziata nel 2014, quando Nick Lawrence, che per dieci anni ha mandato avanti Freight & Volume a Chelsea sulla 24esima, ha deciso di aprire a Est Harlem Arts & Leisure, un luogo che, come si legge sul sito web, è nato come “antidoto ai sistemi iper-orientati al mercato attualmente dominanti a New York e nel mondo dell’arte in generale”.
Lo stesso anno Tatiana Pagés, nata in Cile, cresciuta nella Repubblica Domenicana e poi approdata nella Grande Mela, ha aperto la sua galleria sulla 139esima con l’obiettivo non solo di vendere delle opere d’arte ma anche e soprattutto di coinvolgere la popolazione locale nella programmazione. Seguivano Monica Bowman, originaria di Detroit, con la Butcher’s Daughter Gallery sulla 142esima, e Avi Gitler che, dopo anni di pop-up show, metteva radici su Broadway all’altezza della 145esima con la sua Gitler &__ Gallery.
Nel 2015 Gavin Brown, qualche mese dopo l’inaugurazione del nuovo spazio romano a Sant’Andrea dei Vescellari, aggiungeva carne al fuoco della sua attività, chiudendo lo spazio nel West Village per spostarsi definitivamente sulla 126esima. Il nuovo edificio sarà enorme, una sorta di “urban secular cathedral”, come lui stesso lo definisce, su tre piani, di cui il primo sarà restaurato in stile white cube, mentre gli altri manterranno il carattere dell’architettura originale: “È uno spazio fantastico, unico. Credo che là gli artisti saranno in grado di fare delle mostre importanti. Apriremo a maggio con Ed Atkins”. Appuntamento in prossimità della fiera Frieze dunque.
Anche lo Studio Museum, importante istituzione museale sulla 125esima, attiva dal 1968, ha annunciato un ampliamento da 122 milioni di dollari, mentre lo Sugar Hill Children’s Museum of Art & Storytelling ha aperto pochi mesi fa nell’imponente palazzo disegnato dall’architetto David Adjaye.
Rompe infine il silenzio Elizabeth Dee, che nelle ultime settimane ha dichiarato di aver trovato un loft di oltre 1000 mq accanto al National Black Theatre. La gallerista ha annunciato l’inizio di un nuovo capitolo nel programma espositivo a partire dalla prossima primavera, aperto a collaborazioni internazionali, ma anche alle organizzazioni non profit locali, specie in relazione ai programmi educativi per l’infanzia.
La prossima sulla lista sembra essere Claire Oliver che, nonostante il successo delle vendite della sua galleria sulla 26esima, ha ammesso di stare cercando già da circa due anni uno spazio a Harlem che possa diventare una sorta di incubatore per nuovi artisti e curatori.
LE RAGIONI DELLA FUGA
Molti insistono sul fatto che la rivalutazione di tutto il West Side di Manhattan (la High Line, l’arrivo del Whitney, la nuova stazione della metro sulla 11esima Avenue, i grattacieli disegnati da archistar nelle Hudson Yards) e i prezzi schizofrenici delle aste, che impongono un certo gusto a prescindere dalla ricerca artistica, siano gli ingredienti principali che hanno portato a questo fenomeno. Certo è che a questo punto Harlem sembra davvero essere rimasto l’unico fazzoletto di terra rimasto, come conferma Gavin Brown: “Non so cosa stiano facendo gli altri e perché, è già tanto se so quel che faccio io. Non ho potuto trovare nessuno spazio a Chelsea. Tutta l’area è in fase di sviluppo, non ho trovato niente neanche a Downtown e io vivo uptown, quindi alla fine per me ha avuto senso così. Perché proprio Harlem? È il quartiere più famoso al mondo, o no? Puoi dirmene uno più famoso?”.
Eppure, la scelta di puntare verso nord non sembra nascere solo da esigenze di risparmio (come accaduto per il Lower Est Side) e certamente non è nata per far parte di una nuova, eccitante scena artistica guidata da centinaia di artisti giovanissimi lontano dall’isola di Manhattan (come accaduto invece a Bushwick). C’è un certo romanticismo d’altri tempi nelle dichiarazioni dei galleristi e non può essere un dato da sottovalutare se la maggior parte di loro ha scelto di comprare casa e vivere a Harlem prima ancora di pensare di aprirvi un’attività commerciale. Per non parlare del fatto che tutte le gallerie succitate hanno elaborato programmi di coinvolgimento e arricchimento del quartiere stesso.
C’è forse la voglia di far parte di un pezzo di storia di New York ancora non in vendita? “Indubbiamente c’è un elemento storico e spirituale, specialmente nella zona ‘spanish harlem’ dove siamo anche noi. Più convinzioni, multiculturalismo e idee politiche che a Chelsea non si trovano”, risponde Nick Lawrence, anche lui residente uptown. Dopo aver aperto Arts & Leisure nell’Est Harlem, “in una zona economica e vicina ai collezionisti dell’upper est”, a ottobre ha deciso di ricollocare anche la Freigh & Volume nel Lower Est Side. “La gentrificazione sta accadendo ovunque in città, anche nel LES, ma il problema è che negli ultimi anni Chelsea è diventato un posto sempre più conservatore per esporre arte, meno sperimentale, meno audace e meno creativo. Una volta era il ‘selvaggio west’, adesso è la mecca per imprese e grandi gallerie. Noi ci siamo spostati da poco, ma il business non è cambiato molto, i clienti sono gli stessi. L’ambiente invece è molto più stimolante”.
HARLEM OGGI
Harlem è il quartiere uptown con cui si arriva con la linea express in poche fermate. È la zona di Manhattan dove le avenue si chiamano boulevard e le strade numerate di downtown prendono i nomi propri delle grandi personalità della lotta per i diritti civili, da Malcolm X a Martin Luther King. Harlem è l’eleganza delle architetture dei palazzi, è l’Apollo Theatre delle stelle del jazz. È il Crack is wack, uno dei muri più famosi di Keith Haring. È la domenica per strada sugli scalini, con le signore che si vestono a festa mentre nelle chiese risuonano i gospel.
Tuttavia, questo è il quartiere che le guide turistiche consigliano di sì di visitare ma dove sconsigliano di andare la notte. Perché Harlem è anche criminalità e droga, specie nella zona est. Dove incroci come quello su Lexington Avenue sono squarci sulla realtà e le sue disparità sociali, dura e poetica. Dove il disagio e la povertà sono illuminati dai fari rossi e blu sempre accesi della polizia, come ce li racconta Khalik Allah nel recente documentario Field Niggah.
E poi c’è la Harlem del cambiamento portato dai bianchi, dove, oltre alle gallerie d’arte, aumentano il numero di ristoranti turistici come il Red Rooster e locali alla moda dal mood hipster. Non sorprende se, come una ciliegina sulla torta, proprio sulla 125esima aprirà quest’anno anche Whole Food, la catena di supermercati con prodotti bio e prezzi non certo a buon mercato, sinonimo di un certo benessere economico.
SCONFINATI A HARLEM
“Harlem è un’area geograficamente molto estesa rispetto agli standard di New York”, nota Avi Gitler. “Forse proprio per questo lo sviluppo di alcune aree fino ad ora non ha intaccato la sua percezione generale. Inoltre ci sono moltissimi musei prestigiosi, attenti a valorizzare le diversità culturali ed etniche così come la storia di Harlem, dall’Hispanic Society of America al Metropolitan Coister. Sicuramente Gavin Brown porterà una novità, artistica ma soprattutto finanziaria. Credo anche sia possibile che nei prossimi due o tre anni possa svilupparsi una piccola Chelsea nella zona della 125esima, dove a breve aprirà Whole Food. Gli spazi costano meno adesso, ma in poco tempo i prezzi degli affitti aumenteranno anche lì, forse non come a Chelsea, magari il 20% in meno, ma di certo non l’80% in meno. È difficile dirlo adesso”.
Eppure, nel 2006 il critico d’arte Jerry Saltz, in un articolo intitolato No Next Chelsea, metteva in luce già allora le problematiche che riguardavano l’esplosione di Chelsea, andando ad approfondire le origini di quello spostamento commerciale e soprattutto le claustrofobiche limitazioni geografiche dello sviluppo su un’isola, compresa l’impossibilità della prossima migrazione.
Con Avi, nato a Harlem, cerchiamo di capire come questo cambiamento che sta avvenendo uptown sia percepito da chi ci è cresciuto: “Prima questo era un quartiere con un’ampia concentrazione di ebrei, c’era una sinagoga in fondo all’incrocio con la mia galleria che accoglieva 2.000 persone. Adesso non ve n’è più traccia. Certo, non ne parlo con gioia, nessuno è più contrariato di me nel vedere per esempio che il gusto latino di una parte di Harlem stia scomparendo molto velocemente. È uno shock, sono cresciuto con una babysitter cubana che era parte della mia famiglia. Non vorrei neanche vedere i prezzi fuori controllo. Tuttavia, le persone hanno il diritto di essere libere di muoversi e vivere dove vogliono, è un Paese libero e l’unico dato di fatto costante è il cambiamento”.
Il tema è di grandissima attualità in questo momento, non solo a Harlem ma in tutta New York, dove si sta sviluppando una certa coscienza critica locale ben diversa dal passato e la parola “gentrificazione” appare ormai quotidianamente su giornali e riviste, chiamando in causa tutto il mondo dell’arte. A Bushwick i graffiti sono costantemente messi sotto accusa e, allo stesso modo, anche Avi, che porta avanti un progetto di Street Art nella parte nord di Harlem insieme alla National Audubon Society, si è trovato ad affrontare l’argomento con i suoi stessi vicini di casa: “In un anno e mezzo solo due donne si sono lamentate apertamente. E poi, ironicamente, un ragazzo bianco, che solo di recente si è trasferito qua e non è originario di New York, è venuto da me facendomi presente le ripercussioni negative del progetto. La realtà è che chi è cresciuto a Harlem ha la percezione che stiamo facendo qualcosa di buono per il quartiere, rendendolo più bello e piacevole. Posso dire che il 99.9% delle persone per strada ha reagito positivamente. Il problema della gentrificazione è molto complesso, ma il cambiamento fa parte di questa città. È la natura stessa di questa città”.
Veronica Santi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #30
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