In memoria di Giulio Regeni. Street Art e rivoluzione in Egitto
Gli street artist egiziani ricordano Giulio Regeni. Arrivano stencil e murales, dal Cairo a Berlino, per cercare la verità e conservare la memoria di un amico, una vittima, un compagno di battaglie. In gioco c’è la disperata difesa della libertà e dei diritti umani: una rivoluzione che si fa anche sui muri delle città.
LE OMBRE SUL CASO REGENI. E LA SOLIDARIETÀ DEGLI EGIZIANI
Uno di loro. Un fratello. Un compagno di lotta e di strada. Questo era, per molti giovani artisti, studenti e attivisti egiziani, Giulio Regeni. Il ricercatore italiano dell’Università di Cambridge stava lavorando – com’è noto – a un dossier sui sindacati indipendenti egiziani, ostili alle pratiche illiberali del governo di Al-Sisi. E proprio in Egitto trovò la morte, a soli 28 anni, dopo il rapimento avvenuto lo scorso 25 gennaio, nel giorno del quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir. La salma, devastata dalle percosse, oltraggiata, mutilata, venne ritrovata il 3 febbraio lungo uno stradone che costeggia il deserto, nelle periferie del Cairo.
Una vicenda oscura, in cui le trame della politica locale si vestono di ambiguità, buchi neri, passaggi mancanti e fatti taciuti, mistificati. Chi ha ucciso Regeni? A stabilirlo saranno le autorità egiziane, che però potrebbero avere molto da insabbiare: lo spettro dei servizi segreti aleggia, inquietante, mentre piste false e ipotesi auto assolutorie (vedi quella di un coinvolgimento dei Fratelli Musulmani, al fine di destabilizzare il governo) non fanno che infittire il groviglio.
Così, mentre l’Italia spinge in direzione della verità, la gente del posto non ci sta. Vedere questo caso con occhi distanti, avallando certi omissis, certe complicità, certi depistaggi eccellenti, non è accettabile per chi amava Giulio. Non per i suoi amici in Egitto, stretti con calore intorno alla famiglia.
STREET ART IN MEMORIAM
Ed ecco la mobilitazione che parte dal basso, che segue le linee ribelli della strada, che sceglie l’arte per difendere e celebrare. E che cerca spazi di protesta, là dove i diritti umani e civili si fanno merce rara. In progressivo deterioramento. Sotto il governo dell’ex generale Al-Sisi, insediatosi nel 2013 con un colpo di Stato, l’aria che si respira è pesante, fosca. E gli “incidenti” aumentano per gli oppositori: abusi, arresti arbitrari, torture, morti sospette.
“Quello che è successo a Giulio”, ha dichiarato lo street artist iAhmed a Repubblica, “succede tutti i giorni agli egiziani da quando al potere c’è Al-Sisi. Giulio è stato l’allarme rosso che ha svegliato il mondo che fino alla sua morte era rimasto in silenzio. Per questo noi vogliamo ricordarlo: siamo furiosi per quello che gli è accaduto, vogliamo che si sappia che la gente dell’Egitto non si riconosce in questi assassini“.
Ricordarlo, dunque, ma come? Sui muri, sotto i cieli del mondo, usando l’arte come bandiera, come occasione di libertà, come accento scomodo e affermativo. Là dove a essere negata è la libertà di dire, di contestare, di prendere posizione. Di scegliersi il futuro.
iAhmed, in questi giorni, ha lavorato a dei disegni, destinati a diventare stencil tra le vie di Berlino ed Il Cairo: tra questi il volto di Giulio, sorridente, incorniciato da un cammeo di parole d’amore, rubate al celebre poeta siriano Nizar Qabbani.
Altri schizzi sono opera di Naguib, anche lui esponente della nuova scena Street egiziana, anche lui arrabbiato, incredulo, battagliero: “Sono stato invitato da don Karl, artista ed editore tedesco, a partecipare a un lavoro di gruppo sul caso di Giulio Regeni”, ha spiegato al blog anotherscratchinthewall.com, “in segno di risposta da parte degli artisti di strada egiziani al popolo italiano”. Il ritratto del ricercatore assassinato va così ad affiancarsi a quelli dei giovani rivoluzionari egiziani, morti a partire dal 2011, a cui Naguib ha dedicato diversi lavori. Con l’aggiunta di una scritta: “Il nostro fratello italiano Giulio ha vissuto in mezzo a noi e morì come noi, come egiziano”.
QUANDO UN MURALE È UN GESTO POLITICO
Simile la frase scelta dal collega El Teneen e sovrapposta, in caratteri arabi, sul viso di Regeni dipinto su un muro: “Giulio era uno di noi ed è stato ucciso come veniamo uccisi noi”. Stavolta si tratta di un wall painting appena realizzato a Berlino, ancora in memoria della vittima. Quelle parole, ha spiegato il writer egiziano, erano diventate “uno degli hashtag più popolari in Egitto quando si è saputo della sua morte”. Perché il dolore per l’assurdo destino del ragazzo, laggiù, è stato il dolore di tutti. In lui il riflesso dei tanti destini sbagliati, violenti, a cui dissidenti, rivoltosi e sognatori sono stati condannati. Sparendo nel nulla, morendo.
La battaglia per i diritti, da quelle parti, oggi si fa anche così. Lungo una trincea creativa, fatta di parole e immagini seminate fra territori ostili; oppure oltreconfine, fra le metropoli di un’Europa sorda, che drizza le antenne solo quando sono i suoi figli a cadere, ad essere sacrificati. Un’Europa in cui, tra l’altro, la vocazione politica dell’arte è ormai quasi scomparsa, prigioniera di ideologismi di maniera oppure svuotata di senso, smarrita. Un’attitudine critica che si spegne, nel grembo di una democrazia rassicurante, per quanto zoppicante ed incompiuta; e che invece, altrove, nel solco di quella Primavera Araba che fu controverso detonatore, riporta alla vocazione politica originaria di Arte Pubblica e Street Art, tra l’antico muralismo messicano e il writing metropolitano, figlio selvatico della postmodernità.
Siria, Egitto, Libia, Tunisia: l’arte dei muri si è vestita, negli ultimi anni, di urgenze collettive. Coi murales si comunica, si lanciano messaggi, si compiangono i caduti, ci si appropria di una voce zittita e di una identità in trasformazione. Si fa opposizione, resistenza, satira, rumore, contro il potere e in supporto della causa rivoluzionaria. Diventando soggetto collettivo (come ormai, da un pezzo, in Occidente non si diventa più): Giulio Regeni – con la sua sete di conoscenza e le sue denunce – era già fratello di militanza.
E così sogna, Naguib, di portare il suo messaggio proprio in Europa, nella patria di Giulio: “Vorrei dipingere in Italia, ma non ho abbastanza soldi per coprire il mio viaggio dalla Germania. Chissà, forse un giorno ne avrò la possibilità”. La voglia di portare in giro un’idea di resistenza corre parallela alla speranza di interrompere gli abusi e le trame di Stato. La verità su Regeni sarebbe, se non altro, un segnale: un primo vaso di Pandora da scoperchiare.
Helga Marsala
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