Quattrocentottanta miliardi
di battiti mi bastano. Messi insieme
fanno un gran rumore, un rumore
infernale e nessuno se ne accorge.
Patrizia Cavalli, Una media di quattrocentottanta (in Datura, 2013)
Esempio: la sottocultura italiana napoletana degli Anni Settanta (Napoli Centrale) – nascosta sommersa sotterranea – jazz rock psichedelico sociale – costruita da trentenni figli della guerra (James Senese) – identità ibride – il recupero delle origini posizionate altrove – l’immaginazione di un’Italia diversa – eccola lì – qualcosa che esorbita completamente dagli orizzonti consegnati – e qualcosa che è già destinato a essere eliminato rimosso sacrificato – (intanto non mi chiamo) – lo spaghetti western come eredità del dopoguerra – il West come trasfigurazione dell’Italia – un paese piccolo che si sogna grande – in grande – e adesso? – siamo piccoli, piccoli, piccoli, ridotti – ammasso – rifiuti – scorie – gentili – fuga – violenza sempre – il fascismo e il rimorso – questo è il nostro paese – una storia che ricomincia, da capo, l’amarezza di uno sguardo – proprio – consegnato – guidare – giusto – la provincia, bianco e nero che si stagliano sull’azzurro, marmo, materiali che devono durare – sono testimoni pericolosi – un paese di tagliagole.
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Una sottocultura tutta fatta di pc portatili, gente connessa, nanobot, legami fragili, proliferazioni. Sganciata parzialmente dalla prossimità fisica, che finalmente si libera dalla condizione succube nei confronti dei vecchini e delle glorie culturali passate, e si proietta nel presente – lo spaziotempo in cui collassa e crolla il futuro: “un rumore infernale e nessuno se ne accorge”.
Veloce – veloce – veloce – la “singolarità” intesa come intelligenza collettiva animata da crescita organica – come è strutturata una comunità di spettri? come stanno insieme i fantasmi? – uno “stato” scavato e ricavato nel presente, scagliato in esso, e non più emesso da una zona estranea e sterilizzata – ciò che abbiamo davanti potrà anche essere più piccolo e meno ambizioso rispetto al passato, ma ha l’indubbio vantaggio di essere concreto, migliorabile, modificabile. Serve scegliere la vita invece della sua simulazione: “Un numero sempre più grande di artisti, galleristi e altri operatori disconnessi e scontenti hanno cominciato a cambiare la direzione dell’arte, le sue strutture e forse i suoi valori interni. Nel corso dell’ultimo decennio, abbiamo visto tonnellate di arte prodotta in fabbriche, rifinita da eserciti di assistenti, e a volte nemmeno toccata dai suoi autori. Tutto ciò che potevi pensare riguardava il suo costo. I collezionisti e i curatori di museo, fieri di essere inclusi nel party globale, hanno tirato fuori enormi quantità di denaro per questo tipo di arte, spesso acquistandola senza neanche averla vista prima. Ogni cosa era impersonale. Le cose piccole, non finite o caotiche erano ‘arte non grata’. Ma adesso, improvvisamente, sempre più arte sta venendo fuori da posti privati, e ha un aspetto estraneo, incolto, strano in maniere che percepiamo come pressanti, impazienti e importanti. Un’arte che proviene da una landa selvaggia (in from the wilderness). Molta arte di questo tipo è più piccola, fatta di materiali economici o recuperati, e più provvisoria, o almeno scorretta in modi che non sono poi così noiosi” (Jerry Saltz, Magic Amid the Money).
(Infestato.) L’esoscheletro che reggeva le cose, i pensieri, le società, i comportamenti e le congiunture è stato fatto secco. Al suo posto, una specie di ameba, totalmente orizzontale, che guizza e si espande e si contrae – il XXI secolo è un mutaforma – opere che guardano di traverso, in tralice – opere che sono fatte e recepite di sguincio, di striscio – nonpiùopere – opere che funzionano come annunci. Prefigurazioni pulviscolari e disperse di una situazione di là da venire, e già presente – in modo frammentario, disperso, disunito, disintegrato, embrionale – in questo tempo che non smette di iniziare – il XXI secolo è un fantasma organico. La fragilità – una fragilità naturale e umana che rappresenta un dato culturale (per ora) quasi invisibile, sotterraneo, sommerso – come un fiumiciattolo che si inoltra e scava.
A cavallo tra il secolo scorso e quello attuale, la cultura sta subendo una mutazione fondamentale nel suo ruolo, nella sua funzione e nella sua struttura; è un fenomeno che può essere verificato in Italia e nell’intero Occidente. Ad essa sempre più – da un trentennio circa a questa parte – si richiede la conferma di ciò che già sappiamo (o che presumiamo di sapere), di ciò che ci è stato inculcato una volta per tutte; si richiede il conformismo, la pacificazione, l’adeguamento: “E questo bestione papalino, non privo / di grazia – il ricordo / delle rustiche concessioni padronali, / innocenti, in fondo, com’erano innocenti / le rassegnazioni dei servi – / nel sole che fu, / nei secoli, / per migliaia di meriggi, / qui, il solo ospite, // questo bestione papalino, merlato / accucciato tra pioppeti di maremma, / campi di cocomeri, argini, // questo bestione papalino blindato / da contrafforti del dolce color arancio / di Roma, screpolati / come costruzioni di etruschi o romani, // sta per non poter più essere compreso” (Pier Paolo Pasolini, Una disperata vitalità, in Poesia in forma di rosa [1964], RCS 2015, p. 132).
Christian Caliandro
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