Ecco cosa farò: mi metterò a pensare a ogni cosa,
a una a una, sguazzerò nella visione delle cose,
ma anche ne discuterò concitatamente, come si fa fra amici,…
Jack Kerouac, Visioni di Cody (1951; 1972)
E niente – la scrittura trova la sua spinta propulsiva (solo?) nel trauma nella disperazione nel disagio nella perdita nel fallimento nell’oscurità delle cose che cercano di tirarti giù nel conflitto nella critica nell’attrito col mondo nell’ingiustizia percepita e subita nella cattiveria degli altri nella frustrazione – è una sorta di vendetta, e al tempo stesso di risarcimento, molto nostalgico, un tentativo magmatico luminoso di recuperare e ricostruire, di riparare ciò che si è rotto e perduto per sempre – senza questa spinta, vitale, quest’energia profonda, non esiste scrittura che non sia decorativa e ipocrita.
La scrittura viene dalla ferita (: la scrittura sana la ferita, ed è la ferita).
Dice: è una visione banale, infantile, romantica – va bene, ma è proprio così.
In una pagina tratta da La favola pitagorica, Giorgio Manganelli si sofferma su un quadro di anonimo quattrocentesco presente agli Uffizi: nel dipinto, San Benedetto giovane si inginocchia davanti alla sua nutrice dalle cui mani è sfuggito un vassoio di coccio andando in mille pezzi. Il santo bambino interviene per risanare il coccio frantumato, “come poteva venir risanato un lebbroso, un cieco”: il punto centrale proprio è l’immensa sproporzione tra la potenza divina e l’umiltà del miracolo, perché “tutto ciò che ha patito una frattura chiama a sé l’intervento prodigioso”.
Un miracolo dunque compatto, e molto concreto. Un miracolo che sembra negare la natura stessa del soprannaturale, incarnato com’è in una dimensione così umana e modesta – ma che proprio per questo risulta ancora più prezioso e significativo. Lo sguardo del santo, in un senso molto italiano, si posa sul piccolo, sul minimo; su ciò che normalmente viene trascurato, e di cui in fondo ci si vergogna. La periferia, il rimosso, il sotterraneo; ciò che è dietro e dentro le cose ‘in bella vista’, in piena luce.
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Così Aldous Huxley in una lettera a George Orwell del 21 ottobre 1949: “Entro la prossima generazione chi tiene le redini del mondo scoprirà che il condizionamento infantile e l’ipnosi indotta dalle droghe sono strumenti di dominio ben più efficaci di armi e prigioni. E che la sete di potere può essere soddisfatta nella sua pienezza inducendo le persone ad amare il loro stato di schiavitù, piuttosto che ridurle all’obbedienza a suon di frustate e calci. Insomma, penso che l’incubo descritto in 1984 sia destinato a evolversi in quello descritto in Il nuovo mondo, se non altro come esito di una necessità di maggiore efficienza”.
Il sacrificio (Ian Curtis-Jack Kerouac-Kurt Cobain-Luciano Bianciardi-Pier Paolo Pasolini): è possibile che il meglio di ogni cultura (nazionale) consista in ciò che è stato sacrificato; rimosso. (In ciò che forse non ha mai visto la luce: le opere mai nate, o solo immaginate, intraviste.) Questo, ovviamente, significa, il sommerso. Il cuore pulsante, il nucleo vivo di una cultura sarebbe così ciò che muore, ciò che scompare, ciò che si perde. (E, probabilmente, questa perdita è necessaria perché il futuro in qualche modo si avvii.) E così, proprio le idee migliori – quelle cioè più oscure affascinanti sfaccettate critiche problematiche ambigue profonde sotterranee invadenti invasive terrorizzanti discordanti dissonanti – vengono: dimenticate, ammorbidite, svuotate. Emergono le soluzioni più concilianti; quelle che rappresentano la pulizia, l’ordine (invece del caos), il compromesso, l’autorità ristabilita.
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Opere del XXI secolo che guardano di traverso, in tralice – che non vogliono essere opere, che non si fanno afferrare se non di sfuggita, come un cane che attraversa la strada o come un gioco di riflessi e riverberi lucenti per strada, sulle carrozzerie delle auto – e artisti che non vogliono essere chiusi, né rinchiusi – artisti che interpretano in continuazione e di continuo infiammati il mondo vivendo pienamente al suo interno e non (al sicuro?) nell’area del recinto – paludosa, paludata – artisti che si relazionano gli altri in molti modi (economici, sociali, esistenziali, creativi), e ciò che sembra “opera” è solo una traccia di questa relazione, un esito possibile di questo processo – neanche il più importante o il più pregnante, se è per questo.
Christian Caliandro
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