Tutti i lunedì di Camille Henrot. Alla Fondazione Memmo di Roma
Un progetto sui giorni della settimana, dal lunedì alla domenica. Una ricerca sulla convenzionalità del tempo e sull’influenza che ha sugli stati d’animo e sui comportamenti umani. È “Monday”, prima puntata dell’ambizioso progetto di Camille Henrot. Che racconta ad Artribune da dove nasce la mostra ospitata alla Fondazione Memmo di Roma, istituzione sempre più proiettata verso una dimensione internazionale.
Al momento dell’intervista, Camille Henrot (Parigi, 1978; vive a New York) è ancora in piena fase di allestimento. Mancano solo poche ore alla vernice di Monday, sua prima personale in Italia – inaugurata lo scorso 11 maggio – ma l’artista sembra tranquilla. Il ritmo della conversazione è tutt’altro che frenetico e, nonostante Monday sia alle porte, Henrot risponde alle domande con una calma quasi domenicale, sfoderando un’inaspettata conoscenza della lingua italiana.
Per prima cosa: com’è nato il contatto con la Fondazione Memmo e l’idea di portare la mostra a Roma?
È un “corteggiamento” iniziato nel 2013, dopo la Biennale di Venezia alla quale ho preso parte. La mostra ha avuto una lunga gestazione – d’altra parte, a me piacciono i progetti lunghi e impegnativi – e c’è voluto del tempo per focalizzare il progetto giusto per quest’occasione.
Monday affronta il tema del tempo, ma da un punto di vista delle convenzioni, poiché i giorni della settimana sono frutto di un’elaborazione “culturale”. Cosa ti attrae di questo aspetto?
Sicuramente il concetto della dipendenza nelle nostre vite. Dipendenza dal lavoro, dalla religione, dalla famiglia, dal sesso, dal cibo, dal gioco. E anche dipendenza dai giorni della settimana, visto che regolano i nostri ritmi, gli appuntamenti, gli impegni, le scadenze.
Di contro, mi ha sempre affascinato il pensiero di grandi autori come Marcel Proust e James Joyce, che hanno riflettuto e scritto molto sull’ozio e su un certo stato di “passività”, per quanto poi abbiano prodotto dei capolavori frutto di un lavoro durissimo. Operavano in uno stato di “malinconia produttiva” – se così si può dire – che a mio avviso rappresentava un tentativo di evasione dagli obblighi della vita quotidiana e che, nel loro caso, ha dato degli esiti artistici ambiziosi e incredibili. E il lunedì, giorno della luna e della malinconia, mi ha evocato questo tipo di approccio e di condizione mentale.
Lunedì è anche il primo giorno della settimana, il giorno che – stando sempre alle convenzioni – si spalanca sulle molteplici possibilità e attività che la settimana potrebbe riservare. Insomma, è un momento che può portare con sé anche aspettative e una certa eccitazione…
Sì, in parte è così. Ma è proprio il concetto di “aspettativa” a essere ambivalente, visto che – allo stesso modo – può portare a grandi entusiasmi o a cocenti delusioni. Il rapporto tra aspirazione e frustrazione è una delle costanti delle nostre vite. È un ciclo che è regolato dal naturale trascorrere del tempo, ma anche da certi ritmi artificiali che ci siamo imposti e che ci influenzano, come i giorni della settimana. Ecco, credo che il lunedì, proprio per questa sua ambivalenza, rappresenti molto bene questo conflitto.
Veniamo alle opere in mostra. Ci sono numerosi lavori che raffigurano figure zoomorfe. In che modo si connettono alla tua idea di “lunedì”?
In realtà queste creature fanno da sempre parte del mio lavoro. Non saprei come fare senza animali! Gli animali, in particolar modo quelli domestici, sono un’immagine emblematica della nostra relazione con la dipendenza, con il desiderio di prendersi cura di qualcuno e di essere amati. Al tempo stesso non hanno nulla di “eroico”.
Prendiamo i cani: a differenza di altri animali più esotici, sono completamente integrati alle nostre vite, rientrano nella normalità. Addirittura li associamo ad attività tipicamente umane – basta pensare al modo di dire “lavorare come un cane”. Ma il cane rimane pur sempre un animale, e mi affascina questa sua condizione in-between tra istinto e ubbidienza, tra pulsione e repressione, tra indipendenza e quiete domestica.
Beh, dall’immagine che ne ricavi, il cane sembra molto in linea con il carattere malinconico e ambivalente dei tuoi lunedì.
Sì, in effetti è così!
I lavori esposti manifestano anche un forte senso di metamorfosi e trasformazione. Di ibridazione, per essere più precisi. Un aspetto che è ricorrente anche in tue opere precedenti, come King Kong Addition.
Sono sempre stata attratta da ciò che è “impuro”. Ibridazioni, dissonanze, abbinamenti improbabili: non mi interessano l’armonia e l’equilibro, preferisco piuttosto creare immagini “contaminate”. Sarà poi l’osservatore, magari con un po’ di sforzo, a definire una logica tra le varie parti e a stabilirne un senso. Detesto pensare che la lettura delle mie opere sia univoca, voglio che il mio lavoro rimanga aperto allo sguardo e alle interpretazioni di chi lo osserva.
Da questo punto di vista trovo ci sia continuità tra la mostra alla Fondazione Memmo e Grosse Fatigue, l’opera che ti ha consacrato alla Biennale del 2013, un video-racconto fatto di sovrapposizioni caleidoscopiche e vertiginose. Tuttavia Monday è un progetto decisamente più fisico e “materiale” rispetto al lavoro che ti è valso il Leone d’Argento a Venezia, basato su un’estetica digitale.
Per questa mostra ho lavorato con una tecnica antica come l’affresco e ho realizzato fusioni in bronzo. Monday ha una consistenza diversa rispetto a un video come Grosse Fatigue. Buona parte di questa mostra nasce anche dal periodo di residenza che ho trascorso qua a Roma e dalle numerose visite alle grandi architetture del passato come Palazzo Barberini, Palazzo Doria Pamphilj, Palazzo Pallavicini Rospigliosi, Palazzo Ruspoli…
Sono rimasta impressionata da questa volontà di grandezza, che però oggi ha una patina di malinconia. I soggetti che popolano gli affreschi in mostra nascono dalla frizione tra queste due polarità: e il risultato sono dunque queste figure a tratti goffe, sproporzionate, grottesche.
In alcuni lavori appaiono comunque tablet e dvd, segno che la tua sensibilità per i device della contemporaneità è ancora viva. Ma colpiscono anche alcuni riferimenti disinvolti alla tradizione artistica: la “pensosità” di alcuni personaggi di Monday ricorda Dürer e Rodin; certi colori e forme fanno pensare alla pittura di Matisse; le sculture zoomorfe richiamano l’immaginario chimerico di Bosch…
È vero. Ma in questo caso, come nel resto della mia produzione, non intendo rendere omaggio a una forma o a una maniera. Per esempio, quando parli di Matisse, sento che la sua influenza sulla mostra non è soltanto a livello formale, ma anche di attitudine: il pensiero dell’artista che a seguito di una lunga convalescenza inizia a dipingere sul soffitto con un pennello attaccato a un pezzo di bambù, sdraiato sul letto, è una delle immagini più mi ha ispirato e che meglio sintetizza il legame tra azione e inattività alla base di Monday.
Si può dire che il senso di malinconia che pervade la mostra rispecchi una condizione propria del nostro tempo?
Non direi, anzi avverto che sia molto lontana dall’attualità che viviamo, che percepisco piuttosto ansiosa e rabbiosa. Oltretutto per me questa malinconia corrisponde a una nostalgia dolce, in qualche modo positiva. Io sono una persona che si entusiasma facilmente: ho tanti desideri, curiosità… Voglio sempre tutto.
È in questo “status” – che talvolta conduce alla delusione e alla rassegnazione – che posso trovare molta più libertà: una volta superata l’ansia iniziale, mi sento predisposta ad andare avanti senza aspettative troppo precise, liberandomi anche dalla paura di fare scelte sbagliate. La malinconia mi dispone nelle condizioni migliori per lavorare, mi allontana dalla frenesia.
La partecipazione alla Biennale e il Leone d’Argento risalgono a tre anni fa. Che direzione ha preso da allora la tua carriera?
Senza dubbio il riconoscimento ricevuto mi ha dato sicurezza. Insieme al trasferimento a New York, è certamente il fattore che più mi ha spinto verso nuove produzioni. Tuttavia cerco di selezionare molto i progetti a cui prendo parte, impegnandomi quasi esclusivamente in lavori di grande portata. Mi trovo più a mio agio nel pensare “sistemi” in cui posso immergermi e nei quali ho ampio spazio di manovra. Per dire: preferisco fare diverse mostre personali piuttosto che prender parte a tante collettive magari con un solo pezzo. Questo mi ha aiutato molto a dare solidità al mio lavoro.
Sai già come si evolverà il progetto sui giorni della settimana?
Nel 2017 approderà al Palais de Tokyo a Parigi, ma non so dire molto altro. In fondo la settimana è lunga, e siamo appena a lunedì.
Saverio Verini
Roma // fino al 6 novembre 2016
Camille Henrot – Monday
a cura di Cloè Perrone
FONDAZIONE MEMMO
Via di Fontanella Borghese 56b
06 68136598
[email protected]
www.fondazionememmo.it
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