I’m not a dancer, I’m a poet. Intervista a Carolyn Carlson
La stagione di danza del Teatro Diego Fabbri di Forlì si è chiusa con il magnetico “Short Stories”, progetto modulare della celebre coreografa californiana Carolyn Carlson. Che sta anche lavorando a un film, in buona parte italiano.
Com’è strutturato il progetto Short Stories?
Esistono nove diverse Short stories, eseguite in forma di assoli o duetti: tra le altre, Density, riallestimento di una delle mie prime creazioni per l’Opéra di Parigi realizzata nel 1973, Burning, Li, Wind Woman. E i pezzi che abbiamo presentato a Forlì: All that falls, Immersion e Mandala. Combiniamo i diversi programmi a seconda degli impegni di ciascuno. È una formula non troppo costosa da portare in tour, rispetto ad altri miei spettacoli più estesi e complessi.
Il titolo del progetto rimanda a un’idea di danza narrativa?
No: avrei dovuto chiamarlo Short Poems. Invecchiando, e diventando forse un po’ più saggia, le mie creazioni si spostano sempre più decisamente verso il territorio della poesia.
Quali sono i punti di partenza di questi lavori?
Il duetto All that falls trae ispirazione da un verso de Il Profeta di Khalil Gibran: “Il lavoro è amore che si fa visibile”. Immersion è la mise en espace di un elemento naturale a cui mi sento profondamente legata: l’acqua. Mandala, interpretata da Sara Orselli, origina dal mistero dei cerchi nel grano.
Hai ideato e poi trasmesso queste coreografie ai tuoi danzatori?
Le abbiamo create assieme. Sono stati miei allievi, ora sono parte integrante della mia Compagnia: conoscono il mio stile. Per creare queste Short Stories ho proposto loro idee, riproduzioni di dipinti, fotografie, poesie mie e di altri autori. Insieme le abbiamo trasformate in danza, a partire da lunghe improvvisazioni.
Secondo quali principi hai selezionato i materiali coreografici da inserire?
Il mio riferimento prioritario è la possibilità di una limpida comunicazione con il pubblico. Tralascio ciò che mi pare non efficace in questo senso, mentre cerco di dare spazio ai materiali che per le persone in platea possano ricevere come “esperienza dinamica”.
In che modo hai costruito il rapporto con la musica in scena?
Per assonanze o per contrasti. Ad esempio nel duetto All that falls, che presenta una sequenza di azioni molto concrete come il tagliare e spezzare assi di legno, ho inserito brani dal forte carattere spirituale di Bach, Haydn, Vivaldi. E una struggente aria de La Traviata di Giuseppe Verdi cantata da Maria Callas.
Carolyn Carlson danzatrice, oggi: quali difficoltà presenta il tuo assolo Immersion?
Io non sono una danzatrice: sono una poetessa che lavora con il tempo e con lo spazio. Data la mia età, non compio nulla di acrobatico, ma so come funziona: ho imparato ad ascoltare.
Quale dialettica instauri fra imitazione della realtà e astrazione, nei tuoi lavori?
Nella mia arte non c’è imitazione, ma costruzione di brevi immagini che possano evocare per un istante elementi concreti del mondo. Fugaci frammenti sempre intrecciati a una danza astratta e antipsicologica, eredità del mio maestro Alwin Nikolais.
Da tempo agisci anche nell’ambito delle arti visive.
Sì. Da almeno quarant’anni produco senza sosta grandi immagini calligrafiche. Miglia e miglia di scrittura. Anche il mio approccio allo spazio è del tutto pittorico: compongo gli oggetti, i corpi e le luci come fossero parte di un quadro. Dipingo il palcoscenico.
Nei primissimi Anni Ottanta hai guidato l’esperienza veneziana del Gruppo Teatro Danza La Fenice, nella quale trovarono spazio e crescita Michele Abbondanza, Roberto Castello, Raffaella Giordano e Giorgio Rossi, fra gli altri.
È stata un’esperienza molto calda, per me. Con loro il mio lavoro è divenuto più organico, più aperto. Provenivo dall’astrattismo di Nikolais, quell’esperienza ha cambiato il mio modo di pensare la danza.
Collabori ancora con quelle persone?
Sto coinvolgendo molti di loro in un nuovo progetto: un film che dirigerò nei due prossimi anni, e che uscirà nel 2019. L’ho concepito a partire da alcuni testi di Carl Jung. Sarà la storia, terrificante, di un uomo che non riesce a trovare se stesso: non ha voce, non crede in nulla. Finché inizia a ricevere una serie di grandi rivelazioni.
Il protagonista sarà Juha Marsalo, l’interprete maschile del duetto All that falls e di tanti altri lavori della Compagnia. In questo film dirigerò circa quaranta danzatori. Lo gireremo fra Italia, Francia e Finlandia.
È la prima volta, per te?
Per quanto riguarda la direzione di un lungometraggio, sì. Lavorerò con il regista canadese Damian Pettigrew, autore di uno straordinario documentario su Federico Fellini intitolato I’m a born liar e di altri su Italo Calvino, Balthus, Moebius, Eugène Ionesco: collaboro con persone interessanti.
Reciterai anche tu in questo film?
Nessuna recitazione: poetry.
Michele Pascarella
www.teatrodiegofabbri.it
carolyn-carlson.com
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