Perché scriviamo? La diagnosi di Tommaso Trini
Verrà presentata al MART di Rovereto mercoledì 18 maggio alle 17. È la rutilante antologia di scritti di Tommaso Trini appena pubblicata dall’editore milanese Johan & Levi. Noi l’abbiamo intervistato sul numero 30 di Artribune Magazine. E qui vi proponiamo un suo testo del 1971.
Mi domando se l’uomo non è il risultato del suo mestiere, e qualora si guardi allo specchio non debba abbandonare i suoi panni. Quando la Sontag dice che noi critici, con le nostre interpretazioni, instauriamo un mondo spettrale di “significati”, temo di capire che gli spettri di casa siamo noi. E a meno che uno non sia lo spettro Virgilio, farebbe bene a non spaventare la gente.
Ancora una volta, leggendo i nostri interventi su nac e in generale intorno alle funzioni e ai modi della critica, viene fuori, puntualmente, che ognuno di noi tende a parlare con voce di delegato, obliando ahimè il suo proprio particular di sé medesimo. C’è infatti chi si proietta nella società e chi nella storia di questa, chi si vota al creatore e chi ai soli segni tangibili e codificabili della sua presenza, ma raramente c’è chi si domanda: e io, dominiddio? Gli artisti dicono io, i critici giammai.
Dov’è la crisi? Se ci guardiamo, pochini quanti siamo, constateremo che siamo stravivi, almeno tecnicamente; lavoriamo, ci autocritichiamo, organizziamo; ci accade anche di pubblicare più di quanto riusciamo a scrivere e di scrivere più di quanto riusciamo a pensare, è vero; parimenti, difettiamo di spazio personale nella misura in cui ci accalchiamo intorno alle medesime e rare idee. Ma un nostro intervento non lo neghiamo a nessuno, e non c’è problema che non ci stuzzichi: vas-y mon kiki, dì la tua.
Ci logora l’estrema facilità con cui ci è dato di prendere impellentemente la parola. Tanto più che la nostra corporeità è opaca e risibile, vivendo, come si dice che viviamo, di luce riflessa. Non siamo noi i fottuti intermediari, i sensali di patentamento culturale, i macrò dell’estetico? Oh sì, certe volte scopriamo di essere tutto questo, e qualcosina di più: gente che, élite sul collo di una élite, deve tenersi pronta a saltare via a ogni stura di champagne. L’autocritica ci tiene ben allenati.
Quante autoaccuse, dio mio, per una sola colpa, sia pure un peccato mortale: la colpa, credo, di mancare di un’identità. I critici toccano qui la diagnosi e la cura del loro male sottile. Oggi oscillano, per esempio, tra la consegna di coadiutori e l’anelito al protagonismo. Ma non penso che se un artista putacaso dice beeh, il critico debba darsi a trafelare come un cane pastore, oppure, secondo l’attuale sentire, debba farsi pecora lui stesso. Penso invece che debba continuare a zufolare, se putacaso stava zufolando. Deve cioè dare un’identità alla critica.
Colui che crea identifica la propria opera con il mondo perché all’origine identifica se stesso con la propria opera; nomina le cose del mondo perché nomina anzitutto la sua creazione, facendo sì che questa è arte, è musica, è letteratura. Nell’artista, così come nel musicista e nel poeta, l’attività critica ha vita piena e vigile, talvolta si esplicita, ma non pronuncia mai il suo nome: resta quadro, concerto, romanzo. Indaga e accerta la natura e il funzionamento dell’arte, della musica, della letteratura, e talvolta, non sempre, le funzioni di queste in seno alla società. La critica propriamente detta è stata sconfitta su questo terreno, e da tempo. Da Baudelaire a Breton, da Marinetti a Rosenberg, noi abbiamo assistito allo straordinario incantesimo di alcuni maghi che hanno sostituito, ora per forza propria, ora per osmosi, il farsi dell’atto creativo al farsi del responso critico; e non già al fondarsi dell’identità della critica. Ciò è avvenuto e avviene invece nel corso di altre indagini, specie letterarie. Così intendo l’appello a che la critica sia creativa: si tratta, per cominciare, di affermarne la proprietà di essere se stessa e non altro. Affermarla nella sua dimensione autonoma e necessaria.
Solito folletto disilluso che sghignazza. Dice: ma guarda che anche di quella critica lì la società borghese se ne fa un baffo. “Allora non scriviamo più?” si domandava Vittorini nel 1964. “No, scriviamo perché non possiamo farne a meno…”. E noi possiamo?
La grande remora è la nostra funzione di mediatori. Che forse non lo siamo? Purtroppo sì. Ma constatato altresì che ciò che noi chiamiamo mediazione alla sua origine è separatezza e dissociazione; separatezza nell’ordine socio-economico, dissociazione in quello psicologico. Molto è stato detto sul primo punto, e poco sul secondo. Là tendiamo a ritrovare in fondo, sempre in fondo, l’ineluttabilità della nostra complicità culturale con il mercato, come se il mercato non stesse a monte di tutto; qui subordiniamo l’attività critica a quella creativa con la compunzione di crocerossini che si dedicano alla buona causa. L’impasse è completa.
Non ho parlato dei tratti attuali dell’arte e delle sue trasformazioni, perché è proprio degli artisti disegnarli, indagarli e risolverli. Avrei voluto parlare dei tratti attuali della critica, se deve interpretare o conservare o zufolare, ma li ho trovati così vaganti, così spettrali. Ho preferito parlare solo di Godot, del critico che non c’è ancora ma già si annuncia.
Tommaso Trini
Testo pubblicato in nac #1, gennaio 1971, p. 4. Ristampato in Tommaso Trini, “Mezzo secolo di arte intera. Scritti 1964-2014”, a cura di Luca Cerizza, Johan & Levi, Milano 2016, pp. 319-320.
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