San Francisco. Riapre finalmente il SFMOMA firmato Snøhetta
Il SFMOMA riapre ufficialmente le porte dopo tre anni di chiusura per lavori. Al concorso c’erano finalisti del calibro di Norman Foster, Diller Scofidio e Adjaye, ma il progetto vincitore è stato quello di Snøhetta, gruppo norvegese noto per opere pregevoli al limite del rivoluzionario e del visionario. Siamo andati a visitarlo in anteprima.
SFMOMA: L’ATTESA È FINITA
Negli ultimi mesi l’attesa per il SFMOMA ha accresciuto curiosità e dibattito sulla sfida in atto. Da oggi finalmente ognuno potrà farsi un’idea personale dei nuovi spazi, di ciò che di nuovo contengono e dei messaggi che questi vogliono trasmettere ai visitatori. Perché è a questo che serve un museo, no?
Le novità, e forse gli aspetti più interessanti del progetto, sembrano essere essenzialmente due. Da una parte il rapporto con l’immediato intorno. Un sito particolarmente caldo a San Francisco per l’intensità delle trasformazioni in atto nel distretto del Transbay Transit Center. È lì che si gioca l’immagine futura della città e il suo ingresso nel gota dell’architettura contemporanea globale, con nuove torri grattacielo ad opera di firme come Foster, OMA e Pelli. Dall’altra il tema compositivo, ovvero l’abbinamento in tandem all’edificio preesistente post moderno, progettato dall’italo-svizzero Mario Botta, laddove per abbinamento, si direbbe meglio stretta aderenza. Due aspetti, il rapporto con la città e il dialogo con l’architettura simbolica, che più di ogni altro esprimono l’opera in sé, il suo posizionamento e ruolo urbano, ben oltre quello intrinseco al museo stesso, di esporre cioè per la prima volta a San Francisco, capolavori di fotografia e arte contemporanea di caratura mondiale.
Incarico arduo a Snøhetta, esposto a critiche tecniche quanto social-popolari, prima ancora di giungere a compimento. Ora l’opera c’è, è stata consegnata alla città, e con ogni probabilità, grazie anche a quelle polemiche, diventerà presto uno dei landmark più iconici, nella vita culturale della bay area.
ARCHITETTURA SISMICA
Per la forma organica, angolata e un po’ sbilenca, Craig Dyckers di Snøhetta dichiara di essersi ispirato alla morfologia ondulata di San Francisco (onde sismiche incluse); per il bianco puro, al noto clima nebbioso che invade la baia di prima mattina, e alla scelta di un tono neutro se non muto, per accostarsi all’edificio primario con cui il nuovo SFMOMA avrebbe dovuto relazionarsi. Di qua il volume compatto, rettangolare basso, muscolare e assertivo, dell’edificio originario, radicato al suolo dai ricorsi orizzontali in rilievo, e dalla presenza fisica, dei mattoni rossi a vista. Di là, alle sue spalle, come a cavalcioni sul primo, la mole del nuovo edificio che nonostante le proporzioni, si stacca dal suolo per la leggerezza del bianco e le striature corrugate della pelle che lo riveste, come le pieghe di un grande lenzuolo che conferiscono levità.
L’architettura nel suo insieme si percepisce (solo) da lontano, e mai totalmente, eccetto che ci si trovi ad osservarlo da uno dei trentacinquesimi piani dei grattacieli intorno, cosa abbastanza improbabile per un normale avventore/visitatore museale. Dunque dell’immensa opera bianca non si ha mai percezione totale, ma sempre molto angolata, di scorcio, di dettaglio, a spicchi urbani tra gli edifici e il cielo, alzando bene lo sguardo verso l’alto. Eccetto che da Natoma Street, dove è possibile apprezzare uno degli innesti urbani a contrasto, decisamente più riusciti: sullo sfondo bianco totale del nuovo Moma, smarcano con forza le quinte usurate in mattoni, dei vecchi edifici industriali lungo la strada.
PERCHÉ LA POLEMICA
Al SFMOMA si accede come sempre dall’ingresso principale dell’edificio preesistente. Onore e scandalo del nuovo progetto. La polemica in atto si concentra tutta lì. E per comprenderne le ragioni occorre fare un passo indietro, e ricordare l’immagine della hall prima del lavoro di Snøhetta. Il vecchio edificio post moderno ruotava intorno al polo del lucernaio cilindrico centrale che illumina a giorno la hall. Nel cono di luce circolare era inscritta la scala a pianta quadrata, che smistava ai tre livelli soprastanti, e si agganciava ai quattro pilastri a tutta altezza. La composizione agganciava elementi diversi in equilibrio perfetto per funzionalità, geometria e sincronia cromatica dei materiali. Il cilindro segnava il centro, la luce ne esaltava il bianco, la scala in muratura piena dettava la funzione, il marmo nero marcava il portale d’ingresso e l’alta zoccolatura alla base dei pilastri. Ai piedi dei due anteriori, si incastravano i banchi della reception, circolari anch’essi. Snøhetta decide di demolire la scala e di sostituirla con una nuova. Una moderna, leggera, angolata nuova scala, che appare volutamente distaccarsi dal linguaggio precedente.
Il fatto è che la nuova inserzione non risulta affatto migliorativa. Il cono di luce cilindrico è stato spodestato della forza comunicativa passando al rango di un normale elemento decorativo da percepire in seconda battuta, quando si sta già un po’ su per le scale. La zona reception è stata spostata tutta sul lato sinistro per (evidenti?) ragioni funzionali, ma il risultato finale è di grande generale disorientamento. Tale da richiedere l’uso di percorsi transennati, per smistare il pubblico razionalmente. C’è da capire dove siano ubicati gli ascensori. E c’è l’altra scala in fondo, importante, ma di cui ci si accorge in ritardo, che conduce al piano aperto sulla hall, al terrazzo e alla sala ingresso da est, quella dedicata a Richard Serra. Gli spazi sembrano confondersi l’uno nell’altro, il che non genera armonia, perché non risulta essere attribuita priorità o gerarchia a nessuna delle funzioni presenti. Sarà anche una scelta progettuale ma genera confusione. Oltre ad aver distrutto per sempre un carattere importante dell’edificio originario.
LA QUESTIONE “GRADONATE”
L’impianto della nuova ala si sviluppa su una base rettangolare allungata, agganciata sul retro dell’edificio in mattoni rossi, e sale su per dieci piani, scavalcando il precedente di cinque. Lungo l’ala nord, sul lato lungo del rettangolo si sviluppano i percorsi verticali gradonati, che si innestano a loro volta sulle aree pubbliche interne e sugli spazi aperti a corte e terrazza, verso l’esterno. Un volume aggiuntivo, diverso per altezze e materiali, rivestito com’è in pietra grigia, si aggancia al primo in quota, al terzo livello, e costituisce la zona servizio / ristorante / caffè, direttamente connesso alla terrazza, utilizzata come piazza e zona espositiva all’aperto.
La zona dei percorsi con le lunghe gradonate in legno chiaro, costituisce forse la parte più interessante del concept progettuale. Alcuni setti in vetro consentono di traguardarne la vista a vari livelli con un effetto di sovrapposizione e intreccio che ne esalta geometria, luce e leggerezza. Le terrazze lunghe e strette sottolineano la dimensione longitudinale dell’intero edificio e la sensazione di continuare a percorrerlo da su a giù lungo un nastro immaginario. La prima è stretta a corte tra l’edificio bianco e il setto murario trattato a giardino, tra giochi d’ombra e scorci di luce agli estremi che attraggono l’esplorazione. La seconda è tutta aperta e in quota, come una piazza aerea tra i grattacieli intorno. Le viste sulla città diventano parte del progetto, in alcuni scorci sembrano esserne la sua stessa ragione compositiva.
WAREHOUSE O WARDROBE?
Il pezzo aggiunto del MOMA si fregia di nomignoli e appellativi prima ancora di aprire ufficialmente al pubblico. All’appellativo di warehouse di servizio all’edificio esistente, sortito da alcuni soci della membership, Dyckens rilancia definendolo wardrobe dello stesso, dichiarandone umiltà progettuale, non particolarmente evidente nei fatti. Oltre la hall di ingresso, molti i punti deboli, non risolti, nella composizione funzionale. Le aree di ristorazione e caffè sembrano adattate all’uso in ampie sale d’attesa. Gli spazi aperti, sebbene di grande effetto per le aperture prospettiche sulla città, appaiono ricavati da aree di risulta interstiziali, tra l’edificio e quelli vicini, adattate a zone pubbliche con piccoli accorgimenti tecnici di largo uso: la parete giardino in cui alloggiare le essenze autoctone; materiali grezzi industriali che fanno tanto piazza urbana; e l’arredo con opere d’arte, vere, quelle sì di forte magnetismo.
Il linguaggio architettonico dall’impronta nordica, utilizza una palette neutra. Il pure white e i materiali delicati come il legno utilizzato per i pavimenti, sembrano destinati a scontare con ogni probabilità il disagio pratico di una manutenzione continua ed accurata, esposti come saranno all’uso intensivo dei grandi numeri di visitatori attesi.
IL PIÙ GRANDE MUSEO D’ARTE CONTEMPORANEA NEGLI USA
Con l’estensione realizzata, il nuovo museo risulta essere il più grande negli Stati Uniti dedicati all’arte contemporanea. Oltre Serra e Calder esposti nelle aree di ingresso, ci sono Bacon, Jasper Johns, Rothko, Frida Kahlo, Warhol, Richter e Jeff Koons…
Uno dei successi maggiori del nuovo SFMOMA è senz’altro quello di aver creato un dibattito sull’architettura particolarmente appassionato. Motivazione eccellente per fare un biglietto per San Francisco e andare a controllare di persona i fondamenti di una o dell’altra scuola di pensiero. E rifletterci su, magari davanti a un calice di pinot nero della California, al tramonto, con vista sul Golden Gate Bridge.
Emilia Antonia De Vivo
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