Profughi al lavoro nei parchi archeologici? Solo buonismo!
La riflessione di Stefano Monti sulla proposta avanzata dal Soprintendente di Pompei Massimo Osanna di impiegare nella cultura gli immigrati giunti in Italia. Tra buone intenzioni e dati di fatto, quali potrebbero essere le ricadute sul futuro delle professioni culturali?
Ci sono persone che vanno stimate, perché portano avanti un lavoro importante. Anche quando avanzano proposte che offendono la loro preparazione e la loro professionalità. Siamo vicini pertanto al Soprintendente di Pompei Massimo Osanna, e comprendiamo dalla sua proposta la mole di lavoro e le difficoltà che questo presenta.
Per chi non lo sapesse, il professor Osanna ha in questi giorni avanzato una proposta a Renzi, nella quale suggerisce di impiegare nella cultura gli immigrati che vengono ospitati nel nostro Paese, per i quali, si legge, lo Stato già paga una retta.
Allora è evidente che l’idea del Soprintendente ad altro non può essere attribuita se non a una grande necessità di aiuto. E in questo senso va rispettata. Potrebbe anche essere un’idea provocatoria ma con fondatezza sostanziale, se nel nostro Paese non ci fosse una così grande disoccupazione giovanile nei campi dell’arte e dell’archeologia, se non fosse che il livello di preparazione delle università italiane è leggermente differente da quelle offerte fuori dall’Unione Europea, e se non fosse che lo Stato, di fatto, non paga gli immigrati, ma paga (come succede sempre e in ogni settore del nostro Paese) l’apparato burocratico necessario per l’erogazione di livelli minimi di sussistenza per i richiedenti asilo.
Qui non si tratta di stabilire che gli immigrati possano soltanto svolgere lavori manuali (come Terman cercò di propinare agli immigrati statunitensi dietro il paravento del Quoziente Intellettivo). Ma si tratta di dare alle parole un significato concreto.
Quindi delle due l’una: o il Soprintendente stima che la preparazione richiesta dalle nostre università (e che quindi risulta necessaria per operare nel campo culturale) sia sopravvalutata, e che il giusto livello di retribuzione per le professioni ad essa correlate sia un piatto caldo e un tetto, o questa è una boutade. E siccome, come sostiene Massimo Mattioli su questo giornale, questa non è una boutade, allora il futuro delle professioni culturali è veramente molto ma molto a rischio.
E ora già mi immagino il popolo delle buone intenzioni che si scaglierà contro questa riflessione. Sono curioso di trovare, fra le proteste, una proposta fondata.
Stefano Monti
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