Cinque del pomeriggio. Raggiungiamo la Fondazione Giuliani per incontrare Michael Dean (Newcastle upon Tyne, 1977), artista inglese finalista del prossimo Turner Prize. Ce lo presentano, ci dicono che l’illuminazione degli spazi è stata pensata appositamente per la sua personale, e che varierà d’intensità in base all’orario della giornata. Tra un’ora si apre al pubblico. La mostra s’intitola Stamen Papers. La sala più grande, solitamente riservata a interventi di un certo impatto, è completamente vuota. Ci sediamo negli uffici della Fondazione, tra i cataloghi d’arte.
A Roma ti si era già visto. Che mi dici di questa città? Cosa ti ha colpito la prima volta che l’hai visitata? [Dean ha esposto anche alla Nomas Foundation, N.d.R.].
Ricordo che andando al Colosseo mi colpì molto vedere, in un’area piena di colonne antiche, che molte di queste erano distese in terra, in orizzontale, e che la gente le utilizzava come panchine. Sono del nord dell’Inghilterra, di Newcastle, quindi sono particolarmente sensibile a questo tipo di scenari. Anche dalle miei parti ci sono vestigia romane, c’è il cosiddetto Vallo di Adriano.
Parlami di questa mostra. Magari a partire dal titolo che hai scelto, Stamen Papers.
Le parole fluttuano nell’aria, si propagano come il polline. È ciò di cui parla questa mostra. Il lavoro più voluminoso ha una parte in cemento che è preesistente. Sono intervenuto inserendo dieci anni di scritti che mi riguardano, facendone un nuovo oggetto. Ho preso qualcosa che esisteva già come fosse un modello fornito dalla natura, per dare vita a una struttura che stesse nello spazio come un grande fiore.
Nel tuo lavoro la scrittura riveste un ruolo centrale…
La scrittura è molto importante per me. Tutto ciò che è importante nella mia vita ha forma scritta; la mia attitudine concerne la scrittura, prima della scultura. Io metto in mostra parole, cercando di farle vivere come presenze in qualche modo “naturali”. Questo perché mi interessa arrivare all’intimità delle persone. Vedi, quando siamo di fronte a una presenza naturale – come una pianta, un albero – c’è un momento di intensità e attrazione, che è peculiare e forte. Ci sono attimi in cui, anche camminando per strada, ci si ferma a osservare le foglie. È interessante chiedersi cosa significhi questo.
Hai mai realizzato opere pubbliche? Ti attrae questa possibilità, o ritieni il tuo lavoro – così duro ma anche così carico di fragilità e grazia – più adatto a una dimensione indoor?
Sono sempre più attratto dall’idea di realizzare lavori per spazi pubblici. Ma sono anche consapevole dei rischi che si corrono. Vedi, in uno spazio come questo [la Fondazione Giuliani, N.d.R.] il mio lavoro è al sicuro, e questo è importante. Il pubblico può avvicinarsi a esso con la massima libertà – e in fondo il mio lavoro parla proprio di questo, di libertà e tendenza al controllo, e della tensione che si instaura tra queste due forze in contrasto. Portare il mio lavoro “fuori” comporta delle difficoltà: di solito c’è un’agenda politica, e chi se ne occupa tende a privilegiare aspetti come il comfort e la sicurezza. Si prediligono lavori in grado di trasmettere un’idea di potere e di perfezione, e tutto è in genere più commerciale.
Puoi citare un esempio concreto rispetto a queste difficoltà?
Tra qualche mese farò un lavoro pubblico, a New York, davanti alla sede del governo municipale. Sarà una sorta di strana pianta rotta, ma io devo combattere perché rimanga tale, perché solitamente non si vuole che un’opera collocata in uno spazio pubblico appaia “rotta”. È una struttura con delle imperfezioni, ovvero ciò che in genere la politica dell’arte pubblica disdegna.
Hai nominato la scultura… Pittura e scultura – con la loro materialità, la loro ostinata “carnalità” – sono oggi sugli scudi. Non è curioso per un’epoca che si tende a considerare dematerializzata e “liquida”?
In inglese si dice “sticks and stones may break my bones, but words will never hurt me” [“Possono uccidermi le cose, non le parole” – un po’ l’opposto dell’italico “La lingua ferisce più della spada”, N.d.R.]. È una cantilena che si recita fin da bambini. Vedi, uno scritto su carta sta là; anche una scultura sta là: sei davanti a qualcosa di categoricamente fisico, che cadendo può farti – fisicamente – del male. La materialità traduce anche un’idea di potere, il che mi interessa perché concerne il concetto di esperienza. Detto questo, ormai siamo in una fase successiva rispetto a quella caratterizzata dall’apparizione di internet; oggi è come se fossimo consapevoli di avere a disposizione due modi diversi di fare e pensare – uno fisico e uno no –, anche come artisti.
In molte “pagine” hai usato come costante segnica la silhouette del kalashnikov…
Gli elementi visuali che mi interessano sono quelli in cui mi imbatto. Per strada, in città. Io non vivo tra montagne e alberi, ma in ambienti urbani. È questo il mio paesaggio “naturale”, ed è fatto di immagini di quel tipo. Da giovane ero attratto da visioni piacevoli; ora è diverso: ho una famiglia, leggo i giornali, e vedo persone andare in giro con borse di plastica con sopra raffigurati scheletri, kalashnikov, o foglie di marjuana. Credo che il continuo ripetersi di queste immagini le renda astratte. Immagini e parole sono nell’aria, fottutamente dappertutto; così come gli strumenti di controllo, il dolore e la paura, e tutte le cose disgustose che esistono – si disperdono come il polline alimentando ciò che respiriamo; sono nell’aria come un urlo, come un “fuuuuuuuck!”.
Hai lasciato la sala monumentale della Fondazione Giuliani completamente vuota…
Voglio che lo spettatore sia protagonista. Che non abbia un percorso precostituito in testa, che sperimenti ogni volta una differente relazione fisica con lo spazio; che si chieda dove si trova, e sia costretto a interrogarsi a proposito di ciò che sta guardando. Qui aveva senso che potesse chiedersi: “Ehi, che sta succedendo?”.
Ti trovi d’accordo con quanto è stato scritto finora su di te? Leggi i magazine d’arte?
Normalmente no, e comunque non sono una star da riviste d’arte! Ma, per quel che ho letto, chi si è occupato del mio lavoro è partito dall’esperienza che ne ha fatto personalmente, senza rifugiarsi in un canone. Questo per me è importante, anzi rappresenta una parte fondamentale della mia pratica. Io non sono uno scultore in senso stretto; sono arrivato alla scultura quasi casualmente. Ogni mia mostra è un testo; ciò che faccio si basa sul linguaggio e concerne l’esperienza concreta, lo stare al mondo. Penso all’arte come a una forma “altra” della politica, con cui parlare anche a coloro che vivono – ad esempio – nei luoghi da cui provengo io. Dove in pochi leggono, sanno di arte, o vanno all’università.
Quando hai deciso di fare l’artista?
È complicato. In realtà, di fronte a esperienze forti, ho cominciato fin da piccolo a scrivere; poi ho continuato a lavorare con la scrittura, per anni. Ricordo un momento in cui mi sono detto che nella vita non volevo fare altro che scrivere. Le persone intorno a me erano contrarie, per non dire disgustate da questa prospettiva. Poi, qualcuno mi ha aiutato a capire che i miei interessi potevano aprirmi delle strade; che sarei potuto andare all’università, e che ciò che mi interessava aveva persino un nome: poesia. Così, con una valigia piena dei miei scritti sono finito a Londra, al Goldsmiths, ed è andata bene. In effetti ciò che mi interessava poteva darmi delle opportunità, differenti da quelle offerte dal mio background.
Prossimi progetti?
A breve farò un lavoro pubblico a Basilea, per Art Basel, nel contesto di Art Parcours [l’intervista è stata realizzata prima dell’inaugurazione della fiera. Di Parcours abbiamo parlato qui, N.d.R.]. Sono entusiasta. Basilea è un posto incredibile, come città è abituata all’arte collocata nei contesti pubblici. Metterò in strada qualcosa che apparirà essere là per caso. Mi piace pensare che le persone non capiranno immediatamente se si tratta o meno di un’opera d’arte, persino a Basilea. (Come avrai capito cerco sempre di affrontare il problema del riscontro da parte del pubblico.) È un’opera composta da elementi aventi le misure di ognuno dei membri della mia famiglia. Risulterà un lavoro molto spontaneo. Soprattutto agli occhi di chi detiene potere nell’arte, o vuole comunicare potere tramite essa.
E il Turner Prize? Se fossi un bookmaker quante possibilità ti daresti di aggiudicartelo?
Non ne ho la più pallida idea. [sorride, N.d.R.].
Pericle Guaglianone
Roma // fino al 22 luglio 2016
Michael Dean – Stamen Papers
FONDAZIONE GIULIANI
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