Arte in Polonia. Una mostra a Modena e un testo filosofico
Ultimo weekend per vedere, alla Galleria civica di Modena, la mostra sull’arte contemporanea polacca. Una panoramica approfondita e puntuale curata da Marinella Paderni, che qui ci racconta genesi e struttura della mostra. Insieme al testo del filosofo polacco più seguito del momento.
ANTEFATTO: LE DIMISSIONI DI MARCO PIERINI
A fine del 2014, il direttore della Galleria Civica di Modena, Marco Pierini – ora direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria – lascia l’incarico per protesta contro la decisione del Comune di ospitare una rassegna agroalimentare nella Palazzina dei Giardini. Sotto la sua direzione si era avuto un incremento nel numero dei visitatori, arrivati a 50mila, grazie anche a una serie di mostre in programmazione.
Fra i progetti in fase di sviluppo, si stava lavorando a una mostra curata da Marinella Paderni, La memoria finalmente. Arte in Polonia: 1989-2016. Titolo tratto da una poesia di Wisława Szymborska, per dar vita a uno dei percorsi italiani più estesi mai dedicati agli artisti polacchi. Da Paweł Ałthamer a Wilhelm Sasnal, da Agnieszka Polska a Jakub Woynarowski.
UN VIAGGIO DI SCOPERTA IN POLONIA
“L’idea”, sottolinea la curatrice, “è venuta a seguito di un viaggio studio in Polonia nel 2013 su invito dell’Istituto Polacco di Roma. Ho potuto scoprire da vicino la scena artistica locale, conoscere diversi artisti, le principali istituzioni museali di Varsavia, Cracovia e Łódź, nonché le gallerie e alcuni archivi fotografici molto particolari. Un’esperienza intensa di scoperta di una realtà artistica, di avvicinamento alla storia e a un’identità in trasformazione. Tornata in Italia, ho approfondito certe intuizioni, con l’Istituto Polacco e con Marco Pierini. Entrambi hanno appoggiato con entusiasmo il progetto e, con un secondo viaggio studio, un anno dopo ho affinato la mostra”.
Ma come sono stati selezionati gli artisti, quale tipo di rapporto fra tempo e memoria li accomuna? “Per il tipo di mostra e lo spazio espositivo, gli artisti sono quindici, scelti per la singolarità con cui ognuno tratta la memoria: chi in maniera più diretta riferendosi alla loro storia (Grochowiak, Ołowska, Slavs and Tatars), chi spostando l’attenzione sui territori dell’immaginario (Grospierre, Waliszewska)”. Un dialogo tra orizzonti generazionali “che mettono in relazione i lavori di quegli artisti che per primi hanno indagato i temi della memoria e dell’identità dopo l’indipendenza del 1989 (Bałka, Ałthamer, Sosnowska, Budny) con le nuove generazioni nate negli Anni Ottanta (Axelrad, Molska, Polska, Sasnal, Tarasewicz, Woynarowski). Fra l’altro”, prosegue Paderni, “alcuni di loro hanno avuto in Bałka una guida d’eccezione in Accademia e mi piaceva l’idea di rendere visibile la loro continuità di discorsi, che è molto tipica dell’arte polacca. Questa visione del tempo e della memoria – che può essere anche una (non) memoria, il desiderio di non ricordare – si percepisce nel dialogo tra le opere esposte, di cui alcune realizzate appositamente per la mostra”.
TRA PASSATO E FUTURO
Oggi il panorama dell’arte contemporanea in Polonia risulta dunque vivo, ricco di energie, propositivo. “Ho trovato un rinascimento artistico che invece langue un po’ nell’Europa occidentale, soprattutto nelle nuove generazioni”, sottolinea la curatrice. “Inoltre, non avendo potuto vivere alcune espressioni dell’arte del XX secolo perché interrotte dai regimi, oggi gli artisti esplorano con uno sguardo tutto originale il Modernismo e le avanguardie del passato. Negli ultimi anni la Polonia ha investito molto in cultura, sono stati creati diversi centri per la promozione del contemporaneo, e non solo nell’arte”.
Ma la mostra, non essendo una ricognizione storica sull’arte polacca, si concentra sulla particolare forma di memoria che la Polonia ha sviluppato tra dominazioni, genocidi, regimi e l’autonomia finalmente conquistata nel 1989. “Ho voluto creare un percorso visivo che la faccia conoscere, anche se solo per suggestioni, e che renda visibile quanto l’arte contribuisca alla costruzione della loro nuova identità. Infatti ho invitato il filosofo Andrzej Leder a dare un contributo critico sul tema e la curatrice Joanka Zielińska a raccontare lo sviluppo dell’arte polacca dall’indipendenza a oggi. Loro raccontano la Polonia dal di dentro, io la racconto dalla posizione esterna di chi è cresciuto dall’altra parte del blocco”, conclude Marinella Paderni.
Ginevra Bria
LA PREDIZIONE DELLA (NON)MEMORIA
Il testo che segue è di Andrzej Leder, filosofo polacco particolarmente seguito in questi ultimi anni, ed è contenuto nel catalogo della mostra modenese.
Da dove vengono le figure di Paweł Ałthamer? Da quale mondo? Da dove arrivano questi esseri incompleti, spesso quasi degradati, isolati nei vari spazi della contemporaneità: le gallerie, l’orizzonte urbano, il parco? Molti di loro sono in fondo autoritratti dell’artista, è lui, noi, gli Europei (orientali), che si affacciano dalla sfera della (non)memoria. Il tema della (non)memoria, contrastata da una memoria fantasmatica, mitologizzata, spesso scritta giorno per giorno per colmare lacune e silenzi, mi sembra costituire una corrente molto importante tra quelle che attraversano le opere degli artisti polacchi contemporanei. La (non)memoria inoltre tocca molti ambiti: la genealogia collettiva della comunità in cui oggi viviamo, gli eventi mostruosi che si sono verificati nella nostra storia, a volte individuale, i destini familiari menzogneri e passati sotto silenzio… Ma anche le fonti oscure della modernità nella nostra area storica, che si riflette nelle sue forme attuali, spesso bizzarre, deformate, e infine l’oblio dell’Occidente di fronte al “rapimento”, da parte della Russia sovietica dopo il 1945, dell’Europa orientale, che per di più “ritorna” negli anni ’90 , uno scomodo esempio del freudiano “ritorno del rimosso”. Tutte queste (non)memorie rendono molto importante l’indagine nel campo della nostra identità contemporanea, lacerata, priva di confini chiari, attirata in varie direzioni.
L’ambiguo rapporto con la propria identità si rivela perfettamente nell’episodio, finanche aneddotico, legato alla discussione della tesi di laurea di Paweł Ałthamer (1993). A rimpiazzarlo di fronte alla commissione l’artista aveva messo una statua, un autoritratto, mentre su uno schermo posto lì accanto veniva mostrato un video in cui si vedeva lo stesso Paweł lasciare la sala accademica e andare in un bosco per “congiungersi con la natura”, simbolicamente, spogliandosi dei suoi abiti. L’artista abbandona il posto che socialmente gli è stato assegnato e – come scavalcando la linea degli eventi storici – trova rifugio in ciò che è astorico, nella natura, nel bosco. Questo (arte)fatto può essere interpretato come un gioco – forse non del tutto consapevole – con la problematica mancanza di una genealogia collettiva e con le enormi lacune nella memoria nazionale circa il periodo della guerra e del dopoguerra.
I fatti riguardano due ordini di avvenimenti. Quelli più accuratamente occultati si legano al terribile ruolo di bystander, di testimone/spettatore, spesso beneficiario occulto dello sterminio degli ebrei condotto dalle truppe hitleriane. Ma in un modo simile è stato anche rimosso tutto ciò che è venuto dopo, nel periodo staliniano, come il totale smantellamento della struttura sociale tradizionale, la distruzione delle élites precedenti e l’avanzamento massivo, protetto dalle baionette russe, della popolazione contadina, che costituiva la maggioranza della popolazione. Queste trasformazioni sociali durate mezzo secolo sono state in qualche modo cancellate dagli annali dopo il 1989, l’anno in cui si instaura la libertà politica e, allo stesso tempo, una peculiare “restaurazione” culturale. Per questo motivo si può dire che tra lo scoppio della guerra nel 1939 e la caduta del regime nel 1989 si è realizzata una particolare “rivoluzione trasognata”, che ha lasciato una scomoda, ristretta e nebulosa (non)memoria.
Per una parte degli artisti fare i conti con questa rimozione ha significato il ritorno a una realtà pre-storica o ultra-storica, a una “natura” idealizzata o a una fantasmatica tradizione. Ecco allora l’enorme successo della prosa di Olga Tokarczuk, che colloca l’esistenza delle persone in una mitica, atemporale comunità contadina, per cui la storia, malgrado esista, scorre come di lato, marginalmente, un po’ appunto come nei sogni. Allo stesso tempo però nel campo dell’arte si è verificato un enorme “lavoro di memoria”, che ha cambiato la geometria della sensibilità polacca e i suoi punti di riferimento fondamentali.
Per gli artisti cresciuti negli anni ’90, questo lavoro spesso è iniziato dallo scontro con il silenzio e la coltre di nebbia che avevano preso il posto della memoria riguardo allo sterminio avvenuto in terra polacca. Nel tessuto sociale rimaneva uno spazio aperto, ma che si poteva riempire velocemente. Nel paese in cui è scomparsa una comunità ebraica di tre milioni di persone, che prima vivevano insieme a una vasta comunità agraria di polacchi cattolici, nella casa accanto, nel cortile accanto, nella bottega accanto, per decenni la censura politica e soprattutto privata – penetrata nei gesti, nello sguardo, nella smorfia delle labbra – ha proibito di ricordare, pensare, perfino sognare quell’avvenimento. Un avvenimento che per le sue dimensioni toccava quasi ogni famiglia, in particolare quel grande, muto soggetto qual era in Polonia la popolazione contadina.
La risposta degli artisti, spesso legata alla loro genealogia personale – passare accanto alle rovine di una sinagoga mentre si va a scuola o constatare la diffusa reticenza a ricordare una famiglia sterminata – è consistita proprio nel penetrare questa sfera di gesti poco chiari, di segni cancellati, di paradossali bricolage. Come nei lavori di Mirosław Bałka, Die Rampe del 1994 o Selektion del 1997, in cui ci si inizia ad addentrare, come ha detto l’artista stesso, in un’“un’esperienza di post-testimone”. Un’esperienza legata non tanto alla testimonianza personale, ma a ciò che è registrato nelle “immagini residue” di una (non)memoria particolare, trasmessa da una generazione all’altra, presente nelle reazioni degli altri – compresi i fruitori dell’opera d’arte – di fronte a determinati oggetti, a determinate parole, e infine dinanzi al vuoto, all’assenza. Sapone, colla in grani, la rampa appunto… Sguardi distolti, disagio, indicibilità.
Andrzej Leder
Testo tratto da “La memoria finalmente. Arte in Polonia 1989-2016”, a cura di Marinella Paderni, Silvana Editoriale, 2016, pp. 28-31.
Modena // fino al 5 giugno 2016
La memoria finalmente. Arte in Polonia: 1989-2016
a cura di Marinella Paderni
Catalogo Silvana Editoriale
GALLERIA CIVICA
Corso Canalgrande 103
[email protected]
www.galleriacivicadimodena.it
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/52177/la-memoria-finalmente-arte-in-polonia-1989-2016/
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #30
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