Per chi come me trova infetta la perversione intellettuale che da Platone in poi distingue la “cultura alta” da quella “popolare”, la “ragione” dal “sentimento”, lo “spirituale” dal “corporale”; per chi come me vuole sgombrare la strada dal riduzionismo storico che ancora oggi considera l’arte e la poesia dei mestieri, delle ricerche linguistiche soddisfatte, dei giochi concettosi con le parole (o con le immagini) frutto di guizzi fantasiosi; per chi come me considera il vero poeta, il grande artista (certamente rarissimi), come coloro che operano al di fuori d’ogni genere, coloro che creano, che trascendono appunto ogni questione di “genere” e di “linguaggio”; per quelli in definitiva che la pensano come me, dire che Muhammad Alì è stato uno dei più grandi poeti, uno dei più grandi artisti del XX secolo, sembrerà cosa ovvia. Gli altri invece si scandalizzeranno.
Troppo educatamente formati per intendere come la boxe sia una rappresentazione originaria, il dispiegamento di una esperienza esistenziale – ogni volta nell’accadere – irripetibile, di una realtà “vera”, di un mondo all’interno del quale non c’è in gioco soltanto l’intelletto, lo spirito, la così detta “cultura”, ma anche il corpo con le sue affezioni, le sue ferite, i suoi tremori. Di come questa sia lo spettacolo crudele, fatto di dolore e di amore, d’imprevedibilità e di gravità, di noia e di grandi emozioni. Lo spazio all’interno del quale confluiscono i nostri sentimenti repressi, le nostre paure, le nostre ansie identitarie. Di come sia qui, su questo fertile terreno, che è spesso capitato di incontrare il vero Artista, il vero Poeta.
Muhammad Alì è stato uno di questi. Anche se non il solo ovviamente. Pensiamo a Diagora. Era alto due metri, un’enormità per l’epoca. Era un uomo favorito dagli dei, ci dice Pindaro, perché in possesso di un talento naturale e di una genia regale (quella degli Eratidai, abitanti di Ialiso, una città dell’isola di Rodi). Era “il gigante” che stava sempre “dritto allo scontro”, il vincitore di tutti e quattro i giochi panellenici, “l’uomo che pugilando incontrerà il successo” (Olimpica, VII). Un uomo però che bene sapeva che cosa significasse anche avere “l’animo fermo”, riuscire a trovare una misura, la saggezza. Era un pugile, un eroe, ma con le qualità d’un poeta. Era un saggio perché, nell’antichità, il sapere veniva considerato come “impervio”, raggiungibile soltanto combinando le doti atletiche con quelle poetiche. Il pugile, per essere tale, doveva dimostrarsi prode e, al contempo, sapiente, reso tale dal dio che – come lui – “fiorisce in arti sagge” (Olimpica, X).
Alì è stato il nostro Diagora. Non c’è dubbio su questo. Lo dico pur avendo amato follemente i pugili dannati, forti sul ring quanto fragili al di fuori, come Sonny Liston, Jake La Motta, Mike Tyson, Carlos Monzon. Pure è innegabile: i discorsi di Alì, le interviste, il suo tuonare, la sua danza sul ring, la sua fragilità e la teatrale esorcizzazione della propria paura, hanno fecondato i sogni di popoli interi, l’immaginazione di intere generazioni di scrittori e artisti. Tuttavia il lavoro di questi ultimi è stato lavoro “professionale”, un lavoro, nel più ispirato dei casi, soltanto ecfrastico. La vera opera, il vero capolavoro era lui. È stato Alì, lui per primo, a combinare la creatività, l’astrazione, il simbolismo della danza (non era, teniamolo bene a mente, un peso medio come Sugar Ray Robinson, ma un peso massimo!) con il combattimento e con il potere della parola, della posa, della rappresentazione. È stato lui a rendere tutto ciò qualcosa di speciale e di assoluto, un capolavoro irriducibile alla catalogazione, a qualsivoglia inquadramento disciplinare.
È così che ci ha reso tutti devoti, in adorazione, pronti a metterci in discussione, a mettere in discussione i nostri impulsi, la nostra morale, la nostra identità, le nostre convinzioni. È con la sua opera, la sua vita, che ci ha ricondotto ad un sapere che nasce dalla sofferenza, alla comprensione profonda dell’esistenza come destino di sofferenza, alla conoscenza dell’ineluttabilità del patire, della nostra impotenza al dolore, dell’impossibilità di replicarvi, di sapere di dover subire, di dover perdere. E, al contempo, alla comprensione di come il dolore, la sofferenza, siano anche rischio, avventura, energia vitale, resistenza, poiché in essi l’uomo forza i propri limiti, si apre a possibilità diverse, a cambiamenti e a rivoluzioni. Al puro lirismo. Altri poeti verrano “poiché la terra ne crea ancora come ne ha sempre creati” (Goethe, Faust II, III 3) ma uno come Muhammad Alì ha lasciato un vuoto difficilmente colmabile.
Gabriele Tinti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati