Mid-career alla riscossa. Giuseppe Spagnulo
Lo scorso 15 giugno è scomparso un altro padre nobile dell’arte italiana. Giuseppe Spagnulo ha personificato il ruolo primigenio e ancestrale dello scultore. Il rapporto dialettico con la materia e il fuoco gli hanno consentito di creare un dialogo sinergico tra forma e spazio, all’insegna di una relazione intensa e costante con le radici intrinseche del fare scultura, ma nella contemporaneità. Presente in mostre e fiere, merita però una più idonea collocazione nelle esperienze della scultura europea.
RADICI ANTROPOLOGICHE
Il legame antropologico con la materia, per Giuseppe (Pino) Spagnulo (Grottaglie, 1936 – Milano, 2016) è intenso e sincero. Passa per una riflessione concettuale, ma si avvia per esperienza diretta. Non è una riflessione a posteriori di recupero di una manualità e di un rapporto dialettico con la materia e il fuoco, ma una possibilità di meditazione su ciò che gli apparteneva per radici famigliari e culturali, da sempre. Era nato a Grottaglie, in Puglia, Spagnulo. Lì, nella piccola fornace del padre – che faceva il vasaio –, era entrato per la prima volta in relazione con il doppio sguardo che ha poi contrassegnato buona parte della sua indagine d’artista. La materia era un campo d’azione a maglie larghe, un territorio da esplorare, fendere, solcare, analizzare, distruggere e ricostruire. In una parola: vivere.
GLI ANNI SESSANTA
E le Terre degli Anni Sessanta, oltre a dimostrare un netto distacco dalle esperienze figurative, rivelano la volontà di affiancare forme, di elaborare piani di pensiero sovrapposti in cui la materia – in particolare il gres – ha concesso a Spagnulo di sperimentare nuove vie. Quando – pensiamo a Testa del 1964, una terracotta – il titolo rammenta ancora esperienze legate all’immagine, anche in quel caso la struttura è un presagio per compiere ulteriori azioni di analisi, di sezionare la materia e di utilizzarla come un’architettura da comporre e scomporre irrimediabilmente, senza una soluzione di continuità. Il risultato è estremo, gioca su un equilibrio legato a una forza solida, misteriosa, sfuggente, eppure, contestualmente, tangibile.
FAENZA, LA CERAMICA
Ma il giovane Pino è curioso, vuole confrontarsi, imparare, forsanche sfuggire alla monotonia dell’artigianato del suo paese, alla pedissequa ripetizione dei motivi tradizionali. Il trasferimento a Faenza, dove studia all’istituto per la ceramica, gli consente un dialogo serrato con una panoramica più ampia, soprattutto sotto il profilo della conoscenza delle tecniche di lavorazione della materia. Qui affina il suo sguardo, e l’incontro con il ceramista francese Albert Diato, l’amicizia con Nanni Valentini e Carlo Zauli fanno il resto.
MILANO
Ma è Milano che gli cambia la vita: così come ha sottolineato Carlo Arturo Quintavalle all’indomani della sua morte sulle colonne del Corriere, è lì che Spagnulo vive un intenso confronto con due maestri, con cui collabora a stretto contatto, Lucio Fontana e Arnaldo Pomodoro. A prescindere dall’esperienza fondamentale dei Tagli, è probabilmente il Fontana scultore a incentivare l’avventura plastica del giovane di Grottaglie. D’altronde, anche la scultura di Pomodoro è un’arte da osservare e indagare sin nelle sue pieghe più intrinseche, perché è una scultura che si fa custode di materia, di forme remote che pretendono di essere setacciate dallo sguardo e dal tatto.
Spagnulo è però uomo del Sud, il rapporto atavico con la storia e la terra gli richiede lo sforzo di operare un corpo a corpo serrato con l’opera, e il fuoco diviene il punto di connessione tra la sua mente e il blocco di materia da plasmare. Le opere della fine degli Anni Sessanta iniziano a riguardare il fare intrinseco della scultura stessa, recuperando la geometria e la logica costruttiva della materia con cui sono forgiate. Gli studi dell’artista sono gli altiforni, le officine, le acciaierie. Il ferro, al pari della ceramica della sua terra, non è però un elemento immobile, ma una struttura mentale e fisica da modificare e alterare. È il caso dei tre imponenti lavori in corten in mostra alla Biennale di Venezia del 1972.
LA DOPPIA POLARITA’
Alla modularità concettuale e fredda degli Anni Sessanta e Settanta – quasi scientifica nell’impostazione di molti artisti della sua generazione –, Spagnulo contrappone quindi un doppia polarità, in cui recupera il concetto di spazio, anch’esso modulare, ma in una chiave dialettica più estrema, di radice informale. E all’informale ha sempre guardato nella meno nota produzione su carta, grandi registri di materia in cui i neri bituminosi e una forza espressiva dirompente hanno dominato la sua indagine parallela e certamente autonoma rispetto alla scultura, com’è emerso undici anni fa in occasione della bella mostra che gli ha dedicato la Guggenheim Collection di Venezia, a cura di Luca Massimo Barbero.
I Ferri spezzati degli Anni Settanta, l’archeologia orizzontale e le Terre negli Anni Ottanta e, ancora, la monumentalità recuperata in età matura. E poi c’è la Germania e l’insegnamento, all’inizio degli Anni Novanta, all’Accademia di Belle Arti di Stoccarda, dove naturalmente gli venne affidata la cattedra di scultura. Tra le altre, merita attenzione anche la sua personale, curata da Bruno Corà alla Galleria dello Scudo di Verona oltre un anno fa, quando Spagnulo ha proposto una selezione di opere recenti, un ritorno alla riflessione attorno alla terracotta, in cui ha ribadito il suo interesse per le argille, rivelando – anche nei titoli scelti per definire i propri lavori – un altro aspetto peculiare e imperituro della sua indagine: il legame con la natura e l’esistenza, due poli d’attrazione attorno ai quali ha scandito per mezzo secolo il suo modo di fare scultura.
Lorenzo Madaro
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