Cespiti (IV). Rivoluzionare la vita
Quarto appuntamento con la serie “Cespiti”. Stavolta la riflessione verte sulla necessità, non più rimandabile, di cambiare la propria vita a partire dalla quotidianità, se si vuole rivoluzionare il futuro.
…abbandonandosi ancora al potere di una visione
che una volta aveva percepito con chiarezza, e ora
doveva cercare a tentoni tra siepi e case e madri e figli –
il suo quadro. Il problema, si ricordò, era come connettere
quella massa sulla destra con quel volume a sinistra.
Virginia Woolf, Al faro (1927)
È una cosa di un’ovvietà quasi imbarazzante: non puoi costruire e mettere insieme (aggregare) nulla di autenticamente interessante e nuovo e radicale dal punto di vista artistico e culturale se non cambi la tua vita. Se non pratichi questo diverso ordine e sistema nella tua esistenza quotidiana. Pretendere di dire agli altri quello che devono fare – di dire qualcosa di culturalmente rilevante – lasciando immutato il proprio modo di vita (che vuol dire: continuando a condividere il sistema di valori vigente e maggioritario; applicando la forma-di-vita totalmente disfunzionale in vigore) è nella migliore delle ipotesi un’illusione bambinesca, nella peggiore l’ennesima e se possibile la più grave simulazione, ipocrisia. Significa in pratica tradire i contenuti che si presume di veicolare, avvelenandoli e contrabbandandoli per ciò che non sono. Una specie molto perniciosa di inganno, di finzione: “Chi è il figlio del falegname [Pinocchio, N.d.R.]? Di che cosa è fatta la sua strada in questo mondo di inganni, dove la maggior parte della gente dimentica chi è, e vive la vita di un altro? Pensate a questo povero stronzo, che non sa chi è mentre il mondo, invece di essere casa sua, è diventato qualcosa che gli piove addosso, come un’acqua sporca e fredda. (…) Non sa chi è, non sa che vuole. E quello che succede alla persona, allo stesso modo succede ai popoli interi. Non sanno più di che razza sono, e affondano nell’umiliazione” (Emanuele Trevi, Il popolo di legno, Einaudi 2015, p. 45).
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La bellezza di tutti questi film neorealisti in bianco e nero dall’immediato dopoguerra agli Anni Sessanta (un ventennio, per abolire e neutralizzare il ventennio precedente), poveri ma ricchi, pieni di tenerezza e di crudeltà e di umorismo e di umanità – ci sono sempre sorrisi e battute che strappano il cuore, e sequenze che ti mordono e ti fanno ribaltare, e c’è una padronanza assoluta che non sa di supponenza ma di conoscenza profonda del mondo e dei rapporti, e queste relazioni poi finiscono dritte dritte nella pellicola e nella narrazione perché sono un tessuto, un ordito di cui vengono ripercorsi tutti i nodi, gli intrecci – agli autori interessa non solo restituire e riflettere quello che vedono, ma costruire quello che non vedono ancora, una società migliore e più giusta, una vita che valga davvero la pena di essere vissuta, calda e tremante e generosa. (La domanda è: quando saremo in grado di realizzare nuovamente film così? Lo chiamavano Jeeg Robot, a modo suo, è animato da un simile spirito di osservazione e di calore.)
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È ora necessario che gli artisti si diano una svegliata anche dal punto di vista economico. Non è possibile infatti immaginare che un’opera riuscita, bella, anche magnifica, funzioni all’interno del vecchio sistema del mercato (vecchio se lo guardiamo proiettandoci in avanti; nuovissimo se lo guardiamo sprofondati nel presente). Anche l’opera più azzeccata, infatti, se immessa nel circuito gallerie-fiere-musei-collezioni annulla istantaneamente tutto il proprio potenziale: non esiste cioè opera d’arte al di fuori della coscienza politica del contesto a cui essa si riferisce, e in cui vive immersa (insieme al suo autore, ovviamente, con tutti i suoi piani di esistenza).
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Fa riflettere la definizione di “generazione perduta” che ci viene affibbiata ogni tre per due (dai Grandi, dai Vecchi, da Quelli-Che-Decidono). Forse però persino chi la usa dimentica chi furono gli autorevoli inventori e divulgatori di questa definizione (un garagista di Parigi, Gertrude Stein e Ernest Hemingway) e quale fu la prima di queste famose generazioni perdute (quella di coloro che raggiunsero la maggiore età durante la Prima Guerra Mondiale): “Hemingway rivela che la frase ‘generazione perduta’ fu presa in prestito dal proprietario del garage che aveva in cura l’auto di Stein. Quando un giovane meccanico non è riuscito a riparare la macchina in modo soddisfacente a Stein, il proprietario del garage gridò al ragazzo: ‘siete tutta una génération perdue’. Stein, nel raccontare la storia di Hemingway, ha aggiunto: ‘Questo è ciò che si è. Questo è ciò che tutti sono… tutti voi, giovani che avete prestato servizio nella guerra. Voi siete una generazione perduta.‘” (da Wikipedia).
Se aggiungiamo che tra gli appartenenti alla prima gloriosa generazione perduta – la successiva, per dire, fu quella beat… – ci sono tra gli altri Steinbeck, Dos Passos, Eliot, Fitzgerald, Miller, Remarque, Pound e Anderson, direi che ci possiamo decisamente stare.
Christian Caliandro
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