Città critiche: Napoli. Il racconto di Angelo Trimarco
Siamo partiti da Roma e siamo arrivati a Milano. Ma la nostra analisi sulle città dell’arte contemporanea viste dei critici d'arte è tutt’altro che terminata. Torniamo verso sud e facciamo tappa a Napoli. La formula resta invariata, con due coppie di critici-curatori in dialogo, a formare un incontro che coinvolge tre generazioni. Cominciamo con Angelo Trimarco in dialogo con Renata Caragliano.
Napoli 1960-1980. A raccontare questa ricca e lunga stagione dell’arte, uno dei protagonisti, Angelo Trimarco, attraverso il suo lavoro critico e sulla critica. Ha insegnato Storia della critica d’arte all’Università di Salerno e collaborato con il quotidiano Il Mattino. Suoi cavalli di battaglia: il dibattito tra moderno e postmoderno, la città e l’abitare, il presente dell’arte e le sue trasformazioni, il post-storia e la galassia estetica d’oggi.
Partiamo dagli Anni Sessanta. Quali sono gli elementi più importanti che a suo avviso caratterizzano la storia di quella che lei ha definito in seguito la “Napoli ad arte”?
Intanto gli Anni Sessanta nascono sotto una buona stella per la Napoli ad arte. Poco prima di Natale del 1960 la galleria Il Centro di Arturo Carola apre la propria sede in via San Pasquale a Chiaia sotto la direzione di Renato Bacarelli. Va precisato che la situazione artistica, in città, è depressa, come racconta Lea Vergine nell’Inchiesta a più voci pubblicata su Marcatré (1965), dalle cui pagine Raffaello Causa e Paolo Ricci lamentavano, da ruoli e posizioni diversi, che la critica era misera cosa e che le gallerie erano ridotte quasi a una sorta di affittacamere. Così, in questo clima s’inserisce Il Centro, che poi, nel 1968, passerà sotto la guida di Dina Carola – nel frattempo la galleria si è trasferita a via dei Mille –, aprendosi al presente dell’arte.
Quali altre realtà contribuiscono al cambiamento?
Qualche anno dopo, nel 1963, in questo clima di rinnovamento, entrerà nell’agone, a port’Alba, anche la Libreria-Galleria Guida, con la mitica Saletta Rossa, dove soprattutto con la spinta di Pellegrino Sarno e di Achille Bonito Oliva, nel corso di un decennio, si sono tenuti mostre, dibattiti e incontri tra i più significativi dell’arte, della letteratura e della filosofia internazionali. Nel 1965 irrompe Lucio Amelio con Modern Art Agency, a Parco Margherita 85, in un palazzo d’epoca, con una personale di Heiner Dilly dal titolo beneagurante, Racconti di viaggio. Ma nel ’65 – vedi la convergenza delle date? – viene chiamato a Salerno Filiberto Menna per insegnare Storia dell’arte al Magistero e in quello stesso anno diventa il critico d’arte de Il Mattino. Io divento suo assistente all’università e suo vice, come si diceva allora, nei giornali. Ho compagni di cordata, all’università, Achille Bonito Oliva e Silvana Sinisi.
Altra figura centrale di quel periodo è il salernitano Marcello Rumma, collezionista, promotore di artisti, editore, e molto di più.
Siamo adesso nella seconda metà degli Anni Sessanta. Marcello Rumma dirigeva il Centro Studi Colautti a Salerno e affiancava a questo lavoro una passione per l’arte – era un raffinato collezionista con la moglie Lia – e per la letteratura. Tra Rumma e Menna è nata una forte intesa. L’esito felice di quest’amicizia intellettuale sono state, tra il 1966 e il ’68, le Rassegne di Pittura, agli Antichi Arsenali di Amalfi. L’Arte Povera – Arte povera più azioni povere, a cura di Germano Celant – ha preso il largo da Amalfi per la sua navigazione internazionale.
Qual era il ruolo delle gallerie a Napoli in questo periodo?
Le rassegne di Amalfi hanno inciso sulla politica e sulle strategie culturali a Napoli. La galleria Il Centro ha presentato dello Zoo di Michelangelo Pistoletto Il principe pazzo e Il te di Alice nel ’69 e Lucio Amelio, nel corso di Arte povera più azioni povere, ha diretto, per conto della Rai – testimone io che ne sono stato attore –, un filmato per documentare l’evento. L’anno dopo si è trasferito a piazza dei Martiri 58, a Palazzo Partanna, cominciando a ospitare mostre di Merz, Fabro, Paolini e artisti della costellazione dell’arte internazionale.
Siamo negli Anni Settanta, aprono nuove gallerie: Lia Rumma nel 1971, lo Studio Morra nel 1973, Studio Trisorio nel 1974. Cosa cambia nello scenario napoletano?
In pochi anni piazza dei Martiri diviene il centro dell’arte a Napoli. Soltanto Framartstudio di Nicola Incisetto che, nel 1975, inaugura con Marcel Duchamp (180 opere), ha scelto per la propria location, si dice oggi, Capodimonte. Il 1971 è una data da segnare con il nome di Lucio Amelio che espone Beuys, La rivoluzione siamo noi, e di Lia Rumma che presenta Joseph Kosuth, L’ottava investigazione (A.A.I.A.I) Proposizione 6. Le due gallerie scelgono strade diverse ma convergenti. Con Beuys: l’arte e l’utopia della trasformazione del mondo, l’arte antropologica e la Scultura Sociale. Con Kosuth: l’arte come analisi e semiotica, tautologia. Le due vie in cui è espresso il presente dell’arte degli Anni Settanta. Appunto, l’arte come pratica antropologica e utopia e la linea analitica, come l’ha chiamata Menna. Lo Studio Trisorio apre, a Riviera di Chiaia, con Dan Flavin, poi Kounellis, intrecciando al discorso della pittura i linguaggi della fotografia e del video, mentre Peppe Morra ha scelto la via della performance e la strada tracciata dalla Scuola di Vienna. Gina Pane, Brus e Hermann Nitsch, Marina Abramović, Urs Lüthi. E lo scandalo è grande.
Sono questi gli anni in cui comincia ad affacciarsi un pubblico, rappresentato dall’allora soprintendente Raffaello Causa, che apre le porte del contemporaneo prima a Villa Pignatelli e poi a Capodimonte.
Raffaello Causa, in collaborazione con Lucio Amelio, ospita a partire dal ‘76 Merz, Pistoletto, Kounellis, Calzolari, Paolini e Carlo Alfano. Nel 1978 avviene un fatto insolito: Causa accosta alla Flagellazione di Caravaggio il Grande Cretto Nero – quindici metri – di Alberto Burri. È l’apertura del grande museo di Capodimonte al presente dell’arte che Nicola Spinosa ha proseguito dal 1984, in sinergia con il privato – in particolare, con gli Incontri Internazionali d’Arte di Graziella Lonardi Bontempo – tanto da dedicare il terzo piano del museo agli svolgimenti dell’arte contemporanea. Gli Anni Settanta, come dico con paradosso, si chiudono l’anno successivo quando, a piazza dei Martiri, Lucio Amelio propizia l’incontro di Beuys con Warhol, che, sulla scena dell’arte a Napoli, sono stati una presenza costante.
Con questo paradosso siamo così arrivati agli Anni Ottanta. Quali gli elementi di cambiamento e/o di continuità che si affacciano in questo decennio?
Gli Anni Ottanta in Italia e in Europa sono segnati dalla pittura postmoderna che Bonito Oliva ha chiamato Transavanguardia. Ma gli Anni Ottanta a Napoli sono più articolati. Ci sono, insieme, Terrae Motus e Joseph Kosuth, l’Arte Povera e l’Azionismo viennese. Terrae Motus è, senz’altro, un nucleo intenso. Warhol e Beuys sono i punti fermi della storia di Lucio Amelio e della collezione in cui convergono l’Arte Povera, con Pistoletto, Paolini, Boetti, Fabro, Kounellis, la Transavanguardia e le esperienze artistiche significative maturate, a Napoli, nel corso degli anni. Si sta delineando un vero e proprio sistema dell’arte – con critici, galleristi e collezionisti – ma, al tempo stesso, si avverte la mancanza di un museo di arte contemporanea, che arriverà solo molto più tardi.
Quali le altre mostre, a suo avviso, che caratterizzano questo decennio? Si può dire che Napoli diventa una delle capitali dell’arte contemporanea in quegli anni?
Nel 1985 Bonito Oliva cura la mostra Evacuare Napoli. L’ultima generazione, all’Institut Français de Naples: una generazione di artisti napoletani e del Sud che, senza retorica né mea culpa, hanno con la città un rapporto dialettico. Nel 1986, a Castel dell’Ovo, Gabriele Guercio cura Rooted Rhetoric. Una tradizione nell’arte americana, dove viene presentato, riprendendo temi di Kosuth, il postmoderno come tendenza dialettica, nel segno di Marx e dell’antropologia marxiana. Al museo di Capodimonte Nicola Spinosa, con gli Incontri Internazionali d’Arte e la cura di Bruno Corà, ospiterà – è il seme da cui germoglierà il terzo piano –, tra gli altri, Merz, Buren, Pistoletto, Sol LeWitt, Kosuth. Intanto a Salerno, dopo la morte di Filiberto Menna, nel 1989 la famiglia dà vita a una Fondazione di studi e ricerche sui linguaggi del contemporaneo che però prenderà corpo successivamente nel 1994.
Renata Caragliano
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #31
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati