Città critiche: Napoli. Il racconto di Stefania Zuliani
Secondo appuntamento con la nostra tre giorni partenopea. Dopo il trentennio dagli Anni Sessanta agli Ottanta attraversato da Angelo Trimarco, arriviamo alla storia recente. In un dialogo fra Stefania Zuliani e Antonello Tolve.
Uno sguardo sulla Napoli d’oggi, sui suoi gusti e sulle sue imperdibili manovre. Che propongono limpidi progetti in dialogo con il tessuto urbano e con una popolazione sempre più attenta a cogliere il cambiamento di un entusiasmante progetto moderno dell’arte, che fa del cuore partenopeo un felice avamposto di sperimentazione. Ecco l’intervista a una protagonista: Stefania Zuliani.
Il 1995 è la data che fa da viatico felice alla Napoli d’oggi e racconta un’avventura quindicinale, quella delle grandi feste dell’arte a piazza Plebiscito inaugurate con la Montagna di sale di Mimmo Paladino. Quale e quanta importanza, per Napoli e per il sistema dell’arte internazionale, ha avuto questo appuntamento?
Sicuramente la trasformazione del volto di piazza Plebiscito, che dopo anni di mortificazione veniva finalmente restituita alla meraviglia dei napoletani e dei turisti grazie allo spettacolare intervento dell’arte contemporanea, è stato un momento seminale. Al di là dell’efficacia delle singole installazioni, non sempre egualmente in grado di interpretare il rapporto con una cornice architettonica e con un contesto storico e antropologico tanto imponenti, l’appuntamento natalizio dell’arte a Piazza Plebiscito ha avuto il merito di coinvolgere, magari anche polemicamente, l’intera città, in qualche modo costretta a fare i conti con la presenza di linguaggi e di pratiche artistiche contemporanei che fino a quel momento erano rimasti al riparo nelle gallerie o, più di rado, nei musei d’arte antica.
Pensi che questo tipo di manifestazione sia stata possibile grazie a una gestazione estetica che nasce negli Anni Sessanta e che ha continuato la sua scalata fino ad oggi?
Certamente la piazza dell’arte, come pure tutte le grandi mostre che hanno scandito nel corso dell’ultimo decennio del Novecento la proposta espositiva a Napoli e in Campania – nel programma degli Annali delle Arti curato da Achille Bonito Oliva per la Regione Campania erano comprese anche iniziative in luoghi periferici, ad esempio Le opere e i giorni, che ha portato alla Certosa di Padula grandi nomi e giovani protagonisti della scena artistica internazionale –, si radicava in una solida tradizione d’avanguardia sostenuta a partire proprio dagli Anni Sessanta da alcune figure di galleristi illuminati. Dina Carola, Lucio Amelio, Pasquale Trisorio, per citare almeno i pionieri oggi scomparsi, nei loro spazi hanno supplito all’assenza delle istituzioni aprendo la strada a quelle nuove gallerie che, a partire dagli Anni Ottanta, hanno poi dato ulteriore impulso a una proposta espositiva che ha portato a Napoli l’arte internazionale, dando visibilità anche ad alcuni artisti che proprio a Napoli si sono formati.
Prima di andare avanti vorrei soffermarmi su quello che c’è dietro l’angolo degli Anni Novanta: e cioè la nascita, nel 1989, della Fondazione Filiberto Menna rinominata adesso Fondazione Filiberto e Bianca Menna.
La Fondazione Menna, istituita a Salerno, ha avuto non solo la capacità di individuare con anticipo il ruolo di un soggetto istituzionale, la fondazione, appunto, che a partire dagli Anni Novanta ha acquistato un peso crescente nel sistema dell’arte contemporanea in Campania (e basterà ricordare la Fondazione Morra, gallerista storico e promotore del Museo Nitsch, la Fondazione voluta dal collezionista Morra Greco, la stessa Fondazione Donnaregina cui fa capo il Museo MADRE) ma ha soprattutto messo a frutto l’eredità di pensiero del critico d’arte salernitano, proponendosi come palestra per più di una generazione di critici e di curatori. Professionisti e studiosi oggi affermati sulla scena globale che negli spazi, oggi purtroppo molto ridotti, della Fondazione hanno avuto modo di sperimentarsi in pratiche di ricerca e di esposizione innovative. Speriamo che, grazie anche al contributo di opere e di creatività messo a disposizione di Bianca Menna, alias Tomaso Binga, la Fondazione Menna possa essere messa in condizione di proseguire il suo fruttuoso percorso.
Torniamo a Napoli, nel vivo della città e di un quartiere che ospita oggi uno dei musei d’arte contemporanea più preziosi d’Italia, il MADRE. La sua storia comincia nel 2005, anno di inaugurazione, anche se nasce con il Patto per l’Arte Contemporanea sottoscritto nel 2003.
L’apertura, anzi, le aperture del MADRE, di cui sono stati progressivamente inaugurati gli spazi a partire dal piano riservato alle opere site specific, opportuno lascito della stagione espositiva pubblica che ha preceduto l’inaugurazione del museo, ha rappresentato davvero il sospirato approdo istituzionale della storia dell’arte contemporanea a Napoli, città che fin dagli Anni Sessanta lamentava l’assenza di una casa pubblica per le opere d’avanguardia. Dopo la partenza, sicuramente brillante dal punto di vista del riconoscimento internazionale, affidata alla direzione di Eduardo Cicelyn, il museo, attraversato un momento di incertezza, si è consolidato con la direzione di Andrea Viliani, che molto ha lavorato per ricucire i rapporti, inizialmente difficili, fra l’istituzione e il territorio, puntando non soltanto sulla collaborazione con gli attori del sistema dell’arte ma anche sull’educazione, facendo propria un’idea partecipata e aperta di museo e creando nuovi canali di comunicazione con il pubblico e con le università campane e l’accademia. Un progetto che speriamo possa trovare nuovi sviluppi.
Al contemporaneo – del 2004 è, ad esempio, la mostra di Damien Hirst – ha volto lo sguardo anche il Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Che l’arte contemporanea trovi accoglienza in spazi destinati a esporre l’arte del passato è ormai tradizione consolidata, e il MANN di Napoli non si è mai sottratto a questa consuetudine offrendo ospitalità, prestigiosa quanto impegnativa, ad artisti di differente caratura. Certo, quella di Hirst è stata tra le scommesse più difficili, vista la natura dell’opera dell’artista inglese, chiamato a misurarsi non solo con le straordinarie collezioni del museo ma anche con il suo pubblico, numerosissimo, eterogeneo e non molto o per nulla interessato all’arte contemporanea. Un cortocircuito che ha comunque funzionato.
Il museo del 900 a Castel Sant’Elmo, il Museo Nitsch voluto da Peppe Morra e il Plart di Maria Pia Incutti sono ulteriori spazi che fanno di Napoli un avamposto di felice sperimentazione e azione.
Il moltiplicarsi dei musei che guardano, da prospettive diverse, all’arte contemporanea in un contesto che per molti anni è stato, da questo punto di vista, silente non può che essere un fatto positivo. L’importante è che queste istituzioni possano avere le risorse, finanziarie ma anche di idee e progetti, per proseguire nel tempo la propria attività e la propria ricerca: il problema, lo sappiamo, non è tanto quello di aprire i musei ma di dar loro continuità e forza propositiva e in questo il dialogo fra pubblico e privato è indispensabile. Motivi di ottimismo non mancano, comunque.
Con Le stazioni dell’arte (1995) coordinate da Achille Bonito Oliva, anche la metropolitana di Napoli diventa un museo d’arte contemporanea.
Quello de Le stazioni dell’arte è stato sicuramente un progetto efficace e di grande impatto, non solo rispetto ai riscontri internazionali ma soprattutto per la capacità di rendere il rapporto con i linguaggi e le opere del presente più familiare, sollecitando curiosità e interessi anche in chi non sarebbe mai entrato in un museo d’arte contemporanea. Un’operazione di arte pubblica che, fuori dalla logica del monumento o della pura decorazione, ha reso migliore, grazie anche all’attenzione al dato architettonico, la qualità della vita dei viaggiatori metropolitani: un risultato che va molto al di là delle considerazioni che riguardano il mondo dell’arte.
Quale il sistema delle gallerie negli Anni Novanta del Novecento e in questo primo ventennio del nuovo secolo?
Credo che il sistema attuale delle gallerie a Napoli sia definito da un lato dal permanere di nomi ormai consolidati – l’elenco sarebbe lungo, voglio ricordare almeno la decana Lia Rumma, che ha aperto anche un’importante sede a Milano senza però rinunciare a quella napoletana – e dall’altro dall’avvicendarsi di nuove gallerie e di spazi espositivi con una programmazione più aperta alla ricerca e alla promozione di artisti meno noti, non solo campani, a conferma del respiro assolutamente globale della scena partenopea. Significativo poi lo spostamento di alcune gallerie, storiche (è il caso di Alfonso Artiaco) e anche più giovani tra i quartieri San Giuseppe e San Lorenzo, per creare un avamposto dell’arte attorno al Museo MADRE. Un segnale che attesta quanto la presenza dell’istituzione sia importante anche come stimolo per un nuovo collezionismo, locale e, soprattutto, internazionale. Non va poi dimenticato il lavoro che alcune associazioni e collettivi svolgono per riattivare attraverso interventi d’arte, anche performativa, luoghi della città marginali o dimenticati, contribuendo a riaffermare il ruolo di Napoli come laboratorio artistico. Un crocevia di ricerche e di confronti cui dovrebbe corrispondere un lavoro critico e teorico che non sempre però trova adeguato spazio di formazione e di espressione.
Antonello Tolve
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #31
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